A scuola per superare i segni della guerra

6 Novembre 2015, 11:53

Il venerdì iracheno è come il sabato europeo: non si lavora, ci si riposa dopo la lunga settimana iniziata la domenica e si dorme un po’ di più dopo essere usciti il giovedì sera. Non questo venerdì però, quando la sveglia suona alle 7.57 perché è previsto l’inizio delle attività alla scuola “Seidat Al Bishara”. Quella di Ashti camp, inaugurata da meno di un mese dalla nostra associazione con il finanziamento della Cooperazione Italiana.

Due diversi turni, uno al mattino e uno al pomeriggio, vedranno impegnati i 640 bambini iracheni iscritti, appartenenti alle comunità cristiana ed ezida della Piana di Ninive, e sfollate nel Kurdistan iracheno dopo l’arrivo di Daesh (Stato Islamico) tra giugno e agosto dello scorso anno.

Per i piccoli alunni della scuola primaria inizieranno due mesi e mezzo di workshop una volta alla settimana: inglese, musica, informatica, arte, teatro.

 

Per provare a portare un poco di normalità nella vita di bambini che si sono visti stravolgere l’esistenza nel giro di un anno: una vita dignitosa in una casa, andando a scuola, nonostante un paese – l’Iraq – perennemente in guerra da almeno 30 anni. La zona da cui provengono era sempre stata più “protetta” rispetto al sud turbolento o alle aree di confine con l’Iran o con la Turchia. Ma l’avanzata di Daesh, favorita dalla confusione creatasi in Siria e dalla gestione del post-Saddam, ha costretto migliaia di persone a scegliere tra la morte e la fuga.

E i segni delle violenze vissute sulla propria pelle o viste vivere da familiari, amici e conoscenti, sono evidentemente riconoscibili negli occhi e nei comportamenti dei più piccoli. Da quando ho cominciato a frequentare il campo di Ashti, ad Ainkawa (Erbil), mi è parso subito evidente che l’energia messa nei giochi di gruppo è sempre un po’ troppa, che la violenza e il contatto fisico sono alla base di ogni attività comune che i bambini intraprendono, che i rapporti sono basati soprattutto sulla forza: chi è più grosso o più abile a imporre la propria fisicità finisce per gestire il gruppo. Spesso imponendo atteggiamenti violenti. Nonostante non sia la prima volta che lavoro in un progetto sociale all’estero, mai avevo visto come gioco preferito tra i bambini il lancio dei sassi. Ma non il lancio a “chi tira più lungo”. Il lancio reciproco, la battaglia.

Dinamiche in qualche modo normali tra bambini, si penserà: vero. Ma un po’ più normali in zone dove c’è stata la guerra, dove le condizioni economiche precarie creano differenze sociali evidenti, dove la scuola non esiste o è relegata a mero obbligo da eseguire, senza un livello di preparazione adatto al contesto da parte dei docenti e con famiglie troppo abituate a fronteggiare emergenze terribili per capire che per spezzare la spirale della violenza si deve cominciare dai più piccoli.

Se questa aggressività in qualche modo repressa esce con forza senza essere incanalata in modo più costruttivo, il rischio serio è che diventi nociva, pericolosa, radicata.

Anche per questo abbiamo fatto della formazione dei docenti e della sensibilizzazione delle famiglie due capisaldi delle nostre attività: con i progetti “Ibtisam” (Sorriso) e “Ahlain” (Benvenuto) si sono offerti servizi integrati di salute mentale e psico-sociale per bambini, con sensibilizzazione di famiglie e docenti, nei campi e nelle scuole per sfollati interni e rifugiati siriani, raggiungendo circa 6.000 bambini tra i Governatorati di Erbil e Dohuk.

I workshop attualmente in corso ad Ashti invece sono concepiti con l’idea di proporre attività che consentano ai bambini di esprimersi più liberamente, di divertirsi imparando nozioni utili, possibilmente imparando a collaborare con i propri compagni.

Sarebbe dovuta essere un’attività integrativa alla normale programmazione scolastica. Ci ritroviamo però nell’assurda situazione, a causa dei continui rinvii della data di inizio delle lezioni dovuti alle proteste in corso in Iraq (secondo il governo non ci sono i soldi per pagare gli stipendi degli insegnanti), ad essere i primi a sviluppare delle attività in una scuola nuova di zecca.

I quattro insegnanti arrivano alla chetichella: se l’orario del nostro appuntamento è poco conveniente per me figuriamoci per loro, tutti sfollati interni, costretti a barcamenarsi tra due o tre lavori precari nel tentativo di sopravvivere alle difficoltà che la guerra ha preparato per loro.

Il primo ad arrivare e Mister K., l’insegnante di inglese: sorride agitato e la sua iperattività mi sembra sottolineare la sua difficoltà emotiva a gestire il momento. Simpatico, sguardo buono, inglese davvero eccellente, nei nostri incontri per impostare le attività mi ha dato l’impressione che questi bambini se lo sarebbero “mangiato vivo”.

Dopo di lui arriva A., con la sua automobile: insegnerà musica e da l’idea di essere molto sicuro di se. Mi ha fatto girare un’ora e mezza il mercato di Erbil col piglio dell’artista che la sa lunga per cercare di trovare i tre strumenti che utilizzerà durante il suo corso: un violino, una pianola modello “matrimonio popolare” e uno djambe’ non esattamente di ottima qualità che riporta alla mente le vacanze al mare. Mi da comunque l’idea di poter conquistare l’attenzione dei bambini facilmente. E’ poi il turno di W., vestita di bianco, lo sguardo basso, perennemente in silenzio, col suo tono di voce che assomiglia a un sussurro: anche lei è un’artista, una pittrice. E anche lei mi lascia poco sicuro con quel suo carattere così calmo: penso che se le capiteranno soltanto bambine andrà tutto bene, ma se troverà un paio di “lanciatori di sassi” in classe saranno fatti nostri.

Carichiamo gli strumenti musicali e le cinque borse piene di colori, pennelli, matite e cancelleria sul pick up e aspettiamo Mister W., l’insegnante di informatica e computer: un altro esempio di calma placida. Con lo staff al completo infine partiamo: una corsa forsennata e arriviamo a scuola. Ovviamente in ritardo, come sempre nel Kurdistan iracheno.

Mister S., il direttore della scuola, sempre sorridente e lamentoso, e perennemente in giacca e cravatta anche con 50 gradi all’ombra, ci attende con quattro gruppi di bambini in file indiane di diverse lunghezze.

Un rapido appello e le aule vengono prese d’assalto da quattro gruppi di piccole pesti: io inizio a girare tra le aule, ufficialmente per fare foto, in realtà per controllare che tutto fili liscio.

A. entra e i 17 diavoletti lo osservano sogghignando: lui calmo brandisce il violino. Con movimenti meccanici apre la custodia, lo impugna, si assicura che sia accordato noncurante del brusio di sottofondo. Poi attacca una prima melodia e i bambini si zittiscono. Per le seguenti due ore tutti i tre strumenti comprati saranno suonati prima da lui e poi, a turno, da ognuno dei bambini. Lascio l’aula di musica per entrare in aula computer: 30 studenti ammassati attorno a 15 computer, spenti. Mister W. va di lezione teorica: sono preoccupato. Ma mi devo ricredere quasi subito. La pacatezza con cui parla pare ipnotizzare i bambini: le risposte troppo agitate vengono stoppate con dolcezza, la pesantezza della lezione viene inframmezzata da battute che fanno divertire i piccoli.

Esco in silenzio e vado a vedere la lezione di arte. Anche qui regna una calma inusuale: i 9 partecipanti hanno tutti il naso incollato ai rispettivi fogli che stanno colorando chi con pastelli chi con pennarelli. La figura di W. che alla lavagna disegna una papera dicendo ai bambini di partire da quell’animaletto  e poi disegnare quello che si sentono mi trasmette una tranquillità che finisce quasi per stridere con quello che questi piccoli di 8-10 anni hanno già dovuto vivere sulla propria pelle.

Dopo di lui arriva A., con la sua automobile: insegnerà musica e da l’idea di essere molto sicuro di se. Mi ha fatto girare un’ora e mezza il mercato di Erbil col piglio dell’artista che la sa lunga per cercare di trovare i tre strumenti che utilizzerà durante il suo corso: un violino, una pianola modello “matrimonio popolare” e uno djambe’ non esattamente di ottima qualità che riporta alla mente le vacanze al mare. Mi da comunque l’idea di poter conquistare l’attenzione dei bambini facilmente. E’ poi il turno di W., vestita di bianco, lo sguardo basso, perennemente in silenzio, col suo tono di voce che assomiglia a un sussurro: anche lei è un’artista, una pittrice. E anche lei mi lascia poco sicuro con quel suo carattere così calmo: penso che se le capiteranno soltanto bambine andrà tutto bene, ma se troverà un paio di “lanciatori di sassi” in classe saranno fatti nostri.

Carichiamo gli strumenti musicali e le cinque borse piene di colori, pennelli, matite e cancelleria sul pick up e aspettiamo Mister W., l’insegnante di informatica e computer: un altro esempio di calma placida. Con lo staff al completo infine partiamo: una corsa forsennata e arriviamo a scuola. Ovviamente in ritardo, come sempre nel Kurdistan iracheno.

Mister S., il direttore della scuola, sempre sorridente e lamentoso, e perennemente in giacca e cravatta anche con 50 gradi all’ombra, ci attende con quattro gruppi di bambini in file indiane di diverse lunghezze.

Un rapido appello e le aule vengono prese d’assalto da quattro gruppi di piccole pesti: io inizio a girare tra le aule, ufficialmente per fare foto, in realtà per controllare che tutto fili liscio.

A. entra e i 17 diavoletti lo osservano sogghignando: lui calmo brandisce il violino. Con movimenti meccanici apre la custodia, lo impugna, si assicura che sia accordato noncurante del brusio di sottofondo. Poi attacca una prima melodia e i bambini si zittiscono. Per le seguenti due ore tutti i tre strumenti comprati saranno suonati prima da lui e poi, a turno, da ognuno dei bambini. Lascio l’aula di musica per entrare in aula computer: 30 studenti ammassati attorno a 15 computer, spenti. Mister W. va di lezione teorica: sono preoccupato. Ma mi devo ricredere quasi subito. La pacatezza con cui parla pare ipnotizzare i bambini: le risposte troppo agitate vengono stoppate con dolcezza, la pesantezza della lezione viene inframmezzata da battute che fanno divertire i piccoli.

Esco in silenzio e vado a vedere la lezione di arte. Anche qui regna una calma inusuale: i 9 partecipanti hanno tutti il naso incollato ai rispettivi fogli che stanno colorando chi con pastelli chi con pennarelli. La figura di W. che alla lavagna disegna una papera dicendo ai bambini di partire da quell’animaletto e poi disegnare quello che si sentono mi trasmette una tranquillità che finisce quasi per stridere con quello che questi piccoli di 8-10 anni hanno già dovuto vivere sulla propria pelle.

Esco e mi dirigo verso l’aula di inglese, da cui proviene una confusione che batte il mix di violino e pianola che proviene da quella di musica. “Lo sapevo” mormoro a voce alta, “lo staranno distruggendo. Ora entro a dargli una mano”. E invece mi devo ricredere subito: l’aula trasuda energia, ma positiva e costruttiva. Mister K. pare un folletto impazzito: si muove e si agita a destra e sinistra, scrive alla lavagna, fa partecipare i bambini che alzano le mani per rispondere alle sue domande incalzandolo con impeto. Alfabeto, numeri, frutta e verdura in inglese: cose semplici, ma sa inventarsi un gioco dietro l’altro.

E i bambini ridono. Ridono come non avevo mai visto da quando sono qui.

E’ così bello vederglielo fare che decido di limitarmi a calmarli quando iniziano a saltare. Le ore scorrono via intensamente, dense e stancanti. Quello che mi resta a fine giornata, oltre al mal di testa dovuto al violino mischiato alle canzoncine per imparare l’alfabeto, è quella sensazione di serenità respirata durante tutto il pomeriggio: questi bambini sono esattamente come tutti gli altri. Hanno bisogno di tranquillità e di normalità per poter crescere dignitosamente.

E questo paese, come tutti gli altri, deve investire sui propri figli: la loro capacità di collaborare fra loro e rispettarsi reciprocamente è l’unica via di uscita dalle tante, troppe guerre vissute finora.

Loro sono il futuro. E hanno bisogno di serenità.

Sergio dalla Ca’ di Dio – Un ponte per…
Foto di Eleonora Gatto – Un ponte per…