Ashti. Le tante utilità di una scuola

10 Febbraio 2016, 14:46

Il racconto del nostro Sergio, che ha seguito i lavori di realizzazione della scuola “mobile” di Ashti sin dall’inizio. Che oggi, oltre ad ospitare le lezioni dei bambini, diventa punto di riferimento per la comunità del campo.

 

Sono passati 57 giorni dall’ultima volta che ho messo piede al campo di Ashti: era fine novembre, i lavori all’area esterna coperta della scuola Seidat Al- Bishara erano quasi finiti.

Quel “quasi” mi fece arrabbiare un po’: ricordo di essermi anche irrigidito con H., il direttore dei lavori di costruzione di Un ponte per….,una delle rarissime volte da quando sono arrivato in Kurdistan iracheno, dato che è professionale, competente e innamorato del proprio lavoro, e dato che fin dall’inizio sia lui che la sua famiglia mi hanno trattato come si tratta un figlio.

Però ci tenevo a vedere la scuola completa prima di ripartire per l’Italia: la fine di un percorso che ho seguito fin dall’inizio, faticoso ma pieno di energia positiva.

Il primo giorno che sono arrivato al campo, alle 10 del mattino di un lunedì di inizio agosto, mentre padre Emmanuel spiegava le sue idee a me, H. e R., il rappresentante di Un ponte per… in Iraq, si muoveva dentro uno spazio vuoto, desertico, con 50 gradi e un viavai di persone che guardavano incuriosite i movimenti del prete, responsabile del campo e punto di riferimento dell’intera comunità: circa 6.000 persone, quasi tutte cristiane, provenienti dall’area di Qaraqosh, vicino a Mosul, piana di Ninive. Come H. e come R., che conoscono metà degli abitanti del campo e provengono dagli stessi luoghi martoriati.

Persone scappate dal giorno alla notte alla follia della guerra e delle sue creazioni: uomini, donne, bambini sfuggito alle persecuzioni di Daesh spesso portandosi dietro “soltanto” le loro vite, perdendo soldi, documenti, case. Tanti perdendo parenti e amici. Tutti, soprattutto i bambini, perdendo la fiducia nel poter avere una vita normale.

Nei successivi tre mesi, grazie al progetto “Yalla Nilab 2” finanziato dalla Cooperazione Italiana, ho visto gettare le fondamenta in cemento, costruire 15 prefabbricati (12 aule, un’aula informatica allestita con computer e Internet, due uffici per i professori e il preside), coprire i corridoi per riparare i piccoli dalla pioggia o dal sole. Ho sorriso vedendo la scuola – piena all’inaugurazione – iniziare ad animarsi giorno dopo giorno al ritmo dei due turni di lezione, al mattino e al pomeriggio, per permettere a tutti i quasi 700 bambini iscritti di avere accesso almeno all’educazione elementare.

Mi sono stupito di vederla aperta praticamente sempre, anche la domenica e il venerdì, quando in teoria dovrebbe essere chiusa, per ospitare corsi non curricolari, ma sempre importanti per chi vorrebbe vivere una vita normale e invece deve accontentarsi di essere un “rifugiato”, uno “sfollato”, “una vittima della guerra”: corsi di teatro, musica, arte (molti organizzati direttamente da Un ponte per…), ma anche ragazzi più grandi, della scuola secondaria (corrispondente a grandi linee alla scuola media italiana) che occupano tre aule per studiare insieme e fare alcuni corsi.

“Possiamo solo il venerdì e la domenica perché gli altri giorni la scuola è aperta per i bambini. Ma almeno ci evitiamo il viaggio fino in città per due giorni…”, raccontano.

La scuola è uno spazio aggregativo diventato immediatamente vitale per il campo di Ashti.

La conferma mi arriva appunto al mio ritorno ad Ainkawa: lo spazio gioco/lezione, riparato da una tettoia e con il pavimento in tartan, un materiale sintetico che si utilizza per i campi giochi e i campi sportivi, raccoglie almeno un centinaio di adulti con qualche neonato e bimbo piccolo al seguito, tutti in fila, abbastanza disordinata e con un’atmosfera decisamente nervosa, tant’e’ che due persone con le pettorine devono tirare quattro urlacci per sedare un paio di discussioni pericolosamente alzatesi di tono.

“Che succede?” chiedo ad H.

“Non so” mi risponde. “Vieni, chiediamo al preside”.

I baffoni del preside mi fanno subito sorridere: personaggio caratteristico, sempre in giacca, estate o inverno, sempre lamentoso, sempre gentile. Mi vede da lontano e mi saluta con calore: l’ultima volta mi ha raccontato per tre ore in arabo la storia dei suoi 7 figli. Ho provato ripetutamente a spiegargli che non lo capivo, ma ci teneva così tanto a raccontarmela che alla fine, mimando e mostrandomi le foto del cellulare, bevendo the forte e zuccherato, ho capito che sono andati via tutti, chi in America, chi in Australia.

A cercare un futuro migliore: “Perché qui cosa restano a fare?”. Domanda a cui faccio sempre fatica a rispondere, combattuto tra il “dovete restare a costruire e a impegnarvi per rendere il vostro paese migliore” e il “se fossi al loro posto tenterei la fuga anche io”.

Quanto è difficile giudicare se i problemi non li vivi direttamente sulla tua pelle o su quella della tua famiglia.

Ci stringiamo la mano e ci diamo quattro baci sulle guance: rinuncio a capire quale sia la numerazione giusta per i saluti ufficiali, qualcuno ti da due baci, qualcuno tre, qualcuno quattro, io provo sempre a far finta di saperla lunga ma alla fine ne risultano sempre o uno in più o uno in meno.

Chiedo cosa stia succedendo sotto la tettoia, il perché di quella folla e mi risponde indicando il cielo: “Le vedi quelle nuvole? C’e’ il rischio che piova”.

In effetti le temperature invernali non sono più magnanime di quelle estive: si oscilla tra gli 0 e i 10 gradi e le precipitazioni, pioggia soprattutto, in qualche caso neve, non rendono la vita facile a chi vive in container di 4×8 metri da quasi due anni.

“E quindi?” insisto io.

“Beh, sai, padre Emmanuel riceve continuamente donazioni: cibo, vestiti, giochi per bambini. Di solito le fanno all’entrata del campo, dove c’è il magazzino. Ma è all’aperto. Se piove si bagnano tutti. Dato che questi aiuti sono fondamentali per la vita di queste persone, abuna mi ha chiesto di farlo nel campo giochi della scuola che è coperto. Per un paio di giorni al mese i bambini possono anche rinunciare a fare ginnastica fuori, tanto fa troppo freddo: stanno in aula a fare lezione e all’esterno facciamo le distribuzioni. Basta che poi puliscano tutto”.

Sorride agitando i baffoni e a me viene di nuovo da ridere.

Non avevo pensato a questo utilizzo della scuola. L’ho sempre e solo pensata come un luogo di insegnamento. Invece, in questi momenti di emergenza, diventa ulteriormente fondamentale per la comunità.

Salutiamo il preside e con H. ci avviamo alla macchina. Gli dico che ha fatto un ottimo lavoro anche con il campo giochi.

“Certo, come sempre”, risponde gongolando.

“Certo lo avessi finito in tempo…”.

Si finge arrabbiato.

Ma vedere che la “sua” scuola è così fondamentale per i suoi concittadini lo rende orgoglioso. Anche questo è costruire piccoli ponti di pace.

Sergio Dalla Ca’ di Dio – Project Manager Un ponte per…