Sulaimania. Oltre la guerra e le differenze

11 Maggio 2016, 14:10

Iniziano le attività del nuovo centro giovanile che stiamo aprendo a Sulaimania: questa settimana si sale in montagna per pulirla dai rifiuti. E tra un sacco di immondizia e un tiro a palla, i ragazzi separati da lingua, cultura, appartenenza e conflitti si ritrovano a parlare, andando oltre le differenze. Perché la guerra ha cambiato la vita di tutti, senza distinzioni. Il racconto del nostro Sergio.

Sabato mattina.

Prima attività ufficiale per il centro giovanile del progetto “Youth Spring Across Ethnicities”, sostenuto dall’Unione Europea, dalla Tavola Valdese Ufficio Otto per mille e dalla CEI a Sulaimania: punto di ritrovo il Monastero di Maryam Al-Adhra, gestito dalla Comunità Monastica di Deir Mar Musa, partner di Un ponte per… insieme ad Al Mesalla.

L’obiettivo è scalare la montagna di Goizha, uno dei monti che fa da cornice a Sulaimania, armati di sacchi della spazzatura e guanti per ripulire la strada della tanta sporcizia lasciata dai passanti e dagli escursionisti molto poco civili.

Ci si ritrova alle 08.15: facce assonnate, curiose, intimidite. È la prima attività ufficiale e sebbene tutti conoscano qualcuno all’interno del gruppo, nessuno conosce tutti e la maggior parte delle facce risultano fra loro sconosciute. Speriamo di arrivare almeno a 10 persone, essendo la prima attività. Alla fine saremo in 20 a salire sul bus affittato.

C’è la ragazza che viene da Baghdad che è eccitatissima perché fa la volontaria in altre tre associazioni ma “non ci sono mai i soldi per organizzare attività divertenti e alla fine non viene mai nessuno: oggi siamo tantissimi!”. Pulirà ininterrottamente la strada fino alla cima e anche al ritorno. Ho perso il numero di sacchi riempiti.

C’è il curdo muscoloso e imbronciato che parla poco e sembra sempre arrabbiato, ma alla fine riempie quattro sacchi e dice “se organizzate qualcosa settimana prossima vengo anche io”.

C’è il professore di sport di Falluja, scappato alla guerra un anno fa: insegna in una scuola per sfollati a Sulaimania ed è capitato all’escursione perché gli amici, visibilmente più giovani di lui, per farlo venire gli hanno detto che era un picnic con barbecue e belle ragazze. “Se mi avessero detto che si doveva lavorare mi sa che la pigrizia avrebbe vinto e sarei stato a casa…”.

Riempirà due sacchi di rifiuti, scherzando con tutti quanti e correndo come un matto dietro alla palla da calcio sgonfia trovata nella spazzatura, che ben presto è diventata l’attrazione principale della parte maschile del gruppo. “Va beh…alla fine è stato bello anche senza barbecue…quand’è che organizzate ancora qualcosa?”.

C’è la ragazza siriana che è scappata tre anni fa dalla sua terra: porta il velo e pare timida ma quando ti racconta la sua storia e quella del suo paese gli occhi diventano duri e determinati, la voce si fa di ghiaccio e il sorriso imbarazzato diventa uno sguardo penetrante e pieno di determinazione. La determinazione di chi vuole continuare ad avere una speranza di normalità.

C’è il giornalista freelance ex pugile sardo che ho conosciuto un paio di settimane fa al Monastero e mi ha contattato per caso per chiedermi se potevamo vederci domenica: arruolato a tradimento in questo esercito di giovanotti, si è trovato ad  essere il fotografo ufficiale del gruppo, con l’incombenza di scattare veri e propri book fotografici alle ragazzine più vanitose.

C’è il ragazzo di Sulaimania “al 100%” che gira con la minibandiera del Kurdistan indipendente che infila in ogni foto: “Fiero di essere curdo”, alla fine passa tutto il tempo con un gruppo di ragazzi di Anbar parlando solo arabo.

C’è il maestro curdo di lingue che parla un buffo inglese e il curdo che ha una associazione che organizza escursioni di trekking che vuole collaborare col centro: sono i meno giovani del gruppo avendo superato di poco i quarant’anni, e stringendo il loro rosario islamico e rigirandolo tra le dita entrambi finiscono per chiacchierare tutto il tempo di montagna, insieme al ragazzo cristiano di Qaraqosh che li ascolta interessato.

Ci sono i cinque arabi di Anbar: apparentemente distaccati e dipendenti dal loro leader, il bello del gruppo che tutte le ragazze guardano e che prima di scappare da Daesh istruiva cani anti-esplosivo per l’esercito americano, finiscono per giocare a pallone tutto il tempo col curdo con la bandiera e una ragazza cristiana di Qaraqosh che sa stoppare la palla al volo proprio bene, ridendo per i goffi movimenti calcistici del professore di Falluja.

C’è l’intellettuale che parla con tutti in tutte le lingue: inglese, arabo o curdo. Ha un’associazione, vuole partecipare alle attività. Odia la guerra, ama il dialogo, è curioso.

C’è la montagna con le sue visuali mozzafiato e la sua tanta sporcizia attorno.

Ma soprattutto c’è un’atmosfera davvero bella: 5 ragazze, 4 over 30, cristiani, musulmani, arabi, curdi, italiani, siriani….un gruppo eterogeneo che passa una mattinata tra sacchi di immondizia raccolti e un pallone che rotola, risalendo una strada di montagna che diventa il luogo giusto per raccontarsi storie a volte lontane, a volte vicine, a volte simili, a volte diverse. Ma con un unico comune denominatore: la guerra che è entrata nella vita di tutti, in un modo o nell’altro. Cambiandola per sempre.

Queste persone hanno due strade davanti a loro: lasciarsi andare all’odio e alla rassegnazione o provare a reagire e dialogare.

Questa volta hanno provato a parlarsi e a condividere dei momenti insieme.

“Settimana prossima organizziamo una gita in bicicletta?”. “Quando facciamo una partita a calcio: Real – Barcellona a Sulaimania?”. “Quando c’è il laboratorio di teatro? E quello di circo?”.

A giudicare da come ci siamo lasciati, è un inizio promettente.

(Le foto sono di Luca Foschi)