Al confine dimenticato, tra Siria e Iraq

7 Dicembre 2016, 16:37

Spingersi fino al confine tra Iraq e Siria per dare immediata assistenza a chi fugge. Costruire ospedali da campo, un sistema di ambulanze, spostarsi da un luogo all’altro con coraggio e determinazione. E’ il lavoro che stiamo facendo in Siria insieme alla Mezzaluna Rossa Curda. Ecco il racconto degli operatori locali.

 

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Nella foto, A. stringe tra le braccia un neonato avvolto in una spessa coperta invernale. Nonostante le difficili condizioni in cui è venuto al mondo, lui è riuscito a sopravvivere. Non hanno avuto la stessa fortuna altri 4 bambini, che non hanno sopportato il freddo, l’attesa, le continue tempeste di sabbia.

Siamo a Rajm Slebi, punto di confine orientale tra l’Iraq e la Siria, a 40 chilometri di distanza dal primo campo profughi in grado di accogliere le famiglie in fuga dalla guerra.

O forse, sarebbe meglio usare il plurale: perché qui arriva chi fugge da quella in Iraq, con la battaglia in corso per la liberazione di Mosul; e da quella in Siria, che non conosce tregua dal 2011. Qui, al confine, siamo a lavoro anche noi.

Anche A., che siede sul retro di un’ambulanza aperta, è fuggito dalla guerra. Da Deir Al Zor, in Siria, caduta nelle mani di Daesh nell’estate 2014, è arrivato nell’area a maggioranza curda del Rojava. Come volontario ha iniziato a lavorare con i nostri partner della Mezzaluna Rossa Curda (KRC), e a quel confine è riuscito, mesi dopo, a riabbracciare sua madre. A. nel campo di Al Hol, è riconosciuto come un eroe perché è stato il primo a prestare soccorso umanitario a migliaia di persone in attesa al confine, dopo giorni di stenti.

La sua storia è quella di centinaia di esseri umani che da questi conflitti stanno fuggendo.

E, come lui, sono tanti i giovani che hanno scelto di unirsi al personale medico e paramedico che, quotidianamente, si muove da un’area all’altra della Siria spingendosi fino alle porte del governatorato di Raqqa, la roccaforte di Daesh nel paese. Dando prima assistenza alle persone in fuga, o trasportando i malati più gravi negli ospedali vicini. Rischiando la vita, ogni giorno, per aiutare.

Da mesi ormai, al confine di Rajm Slebi arrivano anche gli iracheni. Rifugiati, perché questo diventano una volta entrati in Siria, anche se le burocrazie del diritto internazionale non riconoscono loro questo diritto.

Il campo più vicino è quello di Al Hol, costruito già nel 2003 per chi fuggiva, allora, dal conflitto provocato con l’invasione statunitense del paese. Prima di essere rimpatriate in Iraq quelle famiglie sono rimaste nel campo anche per 5 o 6 anni, tanto che oltre alle tende esistono diverse strutture in muratura. L’area in cui sorge in anni recenti è stata occupata prima da Jabhat al Nursa poi, nel 2014, da Daesh, fino a quando non è stata ripresa dalle forze combattenti curde.

La strada per raggiungerlo corre lungo il deserto, e i villaggi che si incontrano – Tel Kocer, Tel Hamis, Al Hol – portano tutti i segni dei pesanti combattimenti che si sono svolti.

Mezzi corazzati bombardati ai lati delle strade, case distrutte da mortai e trincee scavate ovunque. Il campo si trova a 40 chilometri di distanza da Rajm Slebi, e per le famiglie che arrivano al confine in condizioni spesso critiche è tutt’altro che semplice raggiungerlo.

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Per questo ormai da mesi le ambulanze della Mezzaluna Rossa Curda fanno la spola, recuperano le persone, le portano fino al campo o – quando necessario – negli ospedali più vicini.

Donne, bambini, anziani, spesso costretti ad attendere per giorni a quel confine, e “a scavare buche per terra in cui dormire ricoperti da teli di plastica per ripararsi dalle continue tempeste di sabbia”, ci raccontano gli operatori locali.

Nonostante siano già diverse migliaia le persone arrivate a Rajm Slebi dall’Iraq o da altre zone della Siria, l’area è rimasta a lungo esclusa dai primi piani di intervento umanitario delle organizzazioni internazionali, immaginati per fronteggiare quella che già si annunciava come “l’emergenza Mosul”.

Eppure “la Mezzaluna Rossa Curda è stato l’unico attore presente sul campo per diversi mesi”, spiegano gli operatori, “finché Unhcr ha fatto una prima missione di ricognizione capendo che era necessario intervenire anche qui”.

Negli ultimi 6 mesi la KRC è riuscita a costruire un piccolo presidio sanitario nel campo di Al Hol in cui fornire prima assistenza alle persone recuperate al confine. Ma le ambulanze erano solo 2, i farmaci pochi, e i medici riuscivano a garantire presenza solo per qualche ora al giorno.

Per questo abbiamo deciso di intervenire, supportando e potenziando il loro lavoro.

Insieme alla KRC siamo riusciti a creare ad Al Hol una struttura medico-sanitaria di prima assistenza funzionante: un vero e proprio ospedale da campo, costituito da due grandi prefabbricati con diversi reparti e lo spazio per stabilizzare i pazienti prima che siano trasportati negli ospedali. Da 8 persone impiegate nello staff siamo passati ad oltre 60 tra medici, pediatrici, ginecologhe, ostetriche, infermiere, personale paramedico, in grado di fornire assistenza 24 ore su 24.

A questo si affianca il lavoro di 20 operatori sociali che si muovono di tenda in tenda per capire quali sono le problematiche delle persone ospitate ad Al Hol e farne una mappatura, riuscendo anche ad intervenire nei casi in cui le donne, a causa di modelli patriarcali resistenti, non possano uscire dalle loro tende per farsi curare.

Anche il sistema di ambulanze è stato potenziato, ed è il loro il lavoro più difficile. “Percorrere quei 40 chilometri sterrati, a volte arrivare a superare il confine per entrare in Iraq e andare a prendere le persone in fuga, è davvero complesso”, ci spiegano gli operatori.

“E’ un’area pericolosa, a pochissimi chilometri dai combattimenti, circondata da Daesh su più fronti. Capita spesso che arrivano razzi, o che i mezzi si perdano e restino impantanati nel fango ora che sono iniziate le piogge”. Il maltempo, inoltre, rende molto più precarie le condizioni di salute delle persone in fuga, ecco perché il tempestivo intervento del personale medico, spesso, può salvare delle vite. Soprattutto quando si tratta di bambini, di persone anziane, di disabili.

A questo lavoro difficile e fondamentale, si affianca anche quello di “SAFE” – il progetto sostenuto dall’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo (AICS), dall’Ufficio 8×1000 della Tavola Valdese e dalla Provincia Autonoma di Bolzano – con cui stiamo sostenendo 4 cliniche della Mezzaluna Rossa Curda.

“Riusciamo a coprire tutta l’area centro-nord della regione fino al confine con il governatorato di Raqqa, e il lato sud-orientale al confine con l’Iraq”, spiegano gli operatori. A Derik, Amuda, Qamishlo e Serekaniye le cliniche della KRC oggi riescono a fornire servizi sanitari gratuiti 5 giorni a settimana.

“Da Serekaniye, la più occidentale e la più vicina a Raqqa, partono le ambulanze che sostengono le famiglie sfollate siriane nel campo di transito di Mabruka e nei villaggi che si trovano nell’area di Ain Issa, molto vicini ai combattimenti, dove arrivano le persone in fuga da Raqqa”, ci raccontano. “Ma in questi giorni siamo impegnati ovunque nel nord della Siria” spiega S., paramedico della KRC.

“A Manbji, dove arrivano migliaia di persone in fuga da Al Bab; a Sheick Mansour, dove in questi giorni abbiamo prestato assistenza a tante famiglie scappate da Aleppo est. Anche se viviamo in una condizione di embargo e con pochissimi fondi a disposizione”.

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Ormai dal 2015 il ponte che abbiamo tentato di aprire con il Rojava ci ha portato ad accompagnare diversi carichi umanitari di attrezzature sanitarie e medicinali.

“E’ quello che serve di più, perché sia i farmaci pediatrici che quelli anti-tumorali sono praticamente irreperibili in tutta la regione”, raccontano.

La KRC considera la nostra missione più importante proprio quella che nel 2015 riuscì a portare un grande carico di medicinali fino a Kobane a pochi giorni dall’apertura di un corridoio umanitario verso la città, assediata per mesi da Daesh.

E grazie all’impegno della Mezzaluna Rossa, oggi la clinica di Amuda è diventata l’unico centro oncologico gratuito di tutta la regione.

Qui le persone arrivano persino da Aleppo, da Damasco o da Kobane per potersi curare. “Abbiamo scelto di rafforzare anche questo fronte nei prossimi mesi di lavoro, oltre a potenziare il sistema delle ambulanze che vorremmo offrisse sostegno ginecologico. Servono ostetriche e ginecologhe attive 24 ore su 24 disponibili per questo tipo di emergenza”, ci spiegano.

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E per comprendere quanto sia centrale un lavoro di questo genere, bisogna ricordare che si è in una zona di guerra. Che la rete telefonica non funziona quasi mai, ed il coordinamento tra unità mobili ed ospedali è reso incredibilmente difficile e pericoloso dalle condizioni sul terreno, sempre mutevoli.

“Oggi il personale medico e paramedico, composto da giovani volontari e volontarie che hanno scelto di mettersi al servizio della popolazione costretta a subire il conflitto, è incredibilmente preparato e formato”, affermano con soddisfazione. Tante le perdite che hanno subito: l’ultima quest’estate. D. era un ragazzo fuggito dalla città di Menbji appena liberata, si era unito a KRC per aiutare a sua volta chi aveva aiutato lui e la sua famiglia. E’ morto in un incidente stradale mentre fuggiva da un’imboscata di Daesh.

S. uno dei ragazzi che ha fondato la KRC 4 anni fa, ha visto la sua famiglia e la sua fidanzata emigrare in Germania.

“Vorrei andare a trovarli per un breve periodo, ma so già che mi mancherebbe tutto di questo posto, dove sono importante per le persone che vivono intorno a me. In Germania non sarei altro che uno dei tanti siriani fuggiti dalla guerra. Loro hanno capito la mia scelta e la rispettano. Il mio sogno è che possano tornare a Qamishlo, avere la possibilità di costruirsi una vita qui. La KRC ha assunto questo significato per le vite dei tanti ragazzi e ragazze che hanno scelto di restare perché hanno trovato un obiettivo ed qualcosa di importante da realizzare”.

Nel nostro piccolo vogliamo contribuire a rafforzare il loro lavoro. E continuare a camminare e costruire insieme, fino a quando non sarà più necessario fuggire.

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