La società civile irachena contro ingiustizia ed estremismo

12 Gennaio 2017, 15:00

Al via in Iraq i lavori della conferenza annuale 2017 della società civile irachena. Pace, dialogo, democrazia e nonviolenza tra i temi al centro dei lavori, oltre alla solidarietà internazionale per sostenere la lotta nonviolenta contro ingiustizia ed estremismo. Presenti anche noi di Un ponte per…, che sosteniamo la rete ICSSI da anni.

 

I membri iracheni ed internazionali della Iraqi Civil Society Solidarity Initiative (ICSSI), piattaforma di organizzazioni della società civile irachena e internazionale, hanno lavorato nel corso dei mesi passati – insieme all’Iraqi Social Forum e ai gruppi che hanno creato il nuovo Kurdistan Social Forum  per organizzare la conferenza internazionale 2017 focalizzata sull’Iraq, e in particolare sulla resistenza della società civile contro le ingiustizie.

Uno sforzo che fa seguito all’incredibile ondata di proteste nonviolente che si sono svolte nel corso del 2016 a Baghdad e Sulaymaniyah (Kurdistan iracheno) contro la corruzione e l’estremismo che hanno paralizzato la società irachena, privando le persone del diritto alla sicurezza e ad altre necessità fondamentali.

I manifestanti hanno rivendicato il diritto alla creazione di uno Stato civile e democratico, capace di includere le comunità locali nel tentativo di garantire sicurezza, oltre ad un sistema politico che sia basato sulla pari cittadinanza per tutti, e politiche pubbliche capaci di promuovere impiego e servizi essenziali.

Parallelamente, l’offensiva militare lanciata contro Daesh continua a causare migliaia di vittime e feriti tra i membri delle forze di sicurezza e della popolazione civile, oltre ad una crisi umanitaria e politica che peggiora di giorno in giorno, mentre pochissime risorse vengono investite nella costruzione della pace e nella prevenzione dei conflitti.

La conferenza affronterà molti punti chiave urgenti, collegati ad una questione di fondo: che tipo di solidarietà è necessaria per sostenere gli attivisti della società civile irachena nella loro lotta nonviolenta contro l’ingiustizia e l’estremismo?

Nel corso di una giornata di lavori, prevista a Sulaymaniyah per il 18 gennaio, esamineremo insieme le specifiche necessità dei sindacati nella difesa dei diritti socio-economici di base; quelle di chi lavora per promuovere accesso alle risorse e tutela dell’ambiente e quelle di chi difende la libertà di espressione. Tra i temi importanti che verranno affrontati anche la promozione del dialogo, della riconciliazione e del peacebuilding; il ritorno alle aree liberate di rifugiati e sfollati interni; come gli iracheni immaginano di ricostruire le loro città e la loro società dopo la sconfitta di Daesh.

Impareremo di più sull’adesione alle pratiche nonviolente nelle proteste pubbliche che sono state portate avanti dagli iracheni, e dai curdi-iracheni in particolare; indagheremo la partecipazione delle donne a questi processi e i temi relativi alla parità di genere; ci occuperemo di attivismo giovanile, e di come arte e sport possano essere usati per la lotta contro conflitti e violenze.

Abbiamo diffuso il nostro appello per la partecipazione alla conferenza a tutti gli attivisti nel mondo interessati a venire a Sulaymaniyah  per poter capire dalla voce degli iracheni quale sia l’attuale situazione nel paese.

Crediamo che i partecipanti internazionali abbiano necessità di comprendere come sostenere l’attivismo della società civile locale e lavorare in solidarietà per trovare una giusta, equa e pacifica risoluzione delle crisi che sta attraversando.

Tutte le organizzazioni internazionali e gli attivisti che sono interessati a comprendere meglio la situazione dal punto di vista della società civile irachena, e vogliano lavorare in solidarietà, sono stati invitati a partecipare.

I principi di base della conferenza sono stati fissati dagli organizzatori iracheni ed internazionali, e dovranno essere rispettati da tutti i partecipanti: non ci saranno discriminazioni su base etnica, religiosa o di genere; la partecipazione sarà su base indipendente da qualsiasi partito politico, gruppo o affiliazione religiosa.

Sosteniamo la lotta nonviolenta come unico mezzo per il cambiamento, e siamo consapevoli e rispettosi della fondamentale importanza del lavoro volontario e dell’etica no-profit; ci battiamo per una società civile attiva e dinamica nella costruzione di un Iraq democratico, libero dall’estremismo e dalla corruzione.

A questo link il programma dei lavori.

The Iraqi Civil Society Solidarity Initiative

 

*La conferenza annuale 2017 di Sulaymaniyah è sostenuta da: Fondation Assistance Internationale; Karibu Foundation e CCFD-Terre Solidaire

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I discorsi di apertura della conferenza di Martina Pignatti Morano (Presidente di Un ponte per…) e Ismaeel Dawood (Policy Officer di Un ponte per…) 

L’alternativa civile e nonviolenta all’attuale risposta militare a Daesh*

Martina Pignatti Morano – Presidente di Un ponte per…
Quando l’offensiva a Mosul è davvero iniziata era il marzo 2016, ma pochi in Occidente se ne sono accorti. Soltanto nell’ottobre successivo, quando si è arrivati alla battaglia per la liberazione di Mosul, i giornalisti hanno iniziato a chiamare l’ufficio italiano di Un ponte per…, domandando quanti giorni sarebbero stati necessari per liberare la città. Abbiamo risposto a tutti che sarebbe stata questione di mesi, diversi mesi, e che il successo non era scontato. Ma le persone erano scettiche. In Europa non credevano che Daesh avrebbe potuto resistere così a lungo, confrontandosi con una coalizione internazionale composta da 68 paesi impegnati a sconfiggerlo definitivamente.

Ad oggi, il numero degli sfollati continua a crescere, le loro case vengono distrutte, moltissimi militari e civili vengono uccisi nei combattimenti e le autobombe esplodono anche a Baghdad, come forma di ritorsione da parte di Daesh.

Qual è dunque la ragione di questo mancato successo e cosa porterebbe a una reale liberazione? La comunità internazionale sembra aver dimenticato che tutti i conflitti esistenti prima dell’arrivo di Daesh sono ancora accesi. I pregiudizi tra le comunità continuano a crescere, così come paura e diffidenza verso gli altri, allo stesso modo in cui, in Europa, molti temono i migranti che arrivano dal mondo arabo, non capendo che sono loro le prime vittime del terrorismo.

Anche per questo i nostri paesi continuano ad investire nella risposta militare al terrorismo, ma non fanno nulla per preparare i nostri diplomatici sulle politiche di peacebuilding e mediazione; non sostengono le organizzazioni della società civile internazionale ed irachena e i movimenti sociali che promuovono coesistenza e riconciliazione; non investono sufficienti risorse nel sostegno umanitario alle vittime di questa guerra.

La Coalizione internazionale contro Daesh ha investito oltre 50 milioni di dollari nel Fondo umanitario per la Stabilizzazione dell’UNDP, per rispondere ai bisogni immediati della popolazione nelle aree recentemente liberate, includendo almeno un programma di peacebuilding. Ma nello stesso periodo ha portato avanti oltre 13.500 bombardamenti aerei sia in Iraq che in Siria. Il costo medio giornaliero di questi bombardamenti è difficile da stimare per l’intera Coalizione, ma per quanto riguarda il solo Dipartimento della Difesa statunitense è stato di 11,7 milioni di dollari al giorno sino alla metà del 2016. Oggi potrebbe essere persino più alto.

Come possiamo cambiare le proporzioni tra quei 50 milioni spesi durante la fase iniziale di stabilizzazione, e i 12 milioni spesi ogni giorno per i bombardamenti? Come possiamo rendere merito a tutti i combattenti provenienti dal Kurdistan e dal tutto l’Iraq che hanno sacrificato le loro vite per liberare una vasta regione del paese, gestendo meglio il post-liberazione?

La soluzione è dimostrare che la società civile irachena è in grado di ricostruire il proprio paese, permettendo a tutti il ritorno alle aree liberate, organizzando collettivamente il lavoro di ricostruzione delle scuole, come hanno fatto i nostri amici di Hit, invece di dipendere in gran parte dai progetti e dai fondi delle agenzie e delle Ong internazionali.

Parte della soluzione, forse, sta nel modificare il lessico, usando il termine “peacebuilding” invece che “stabilizzazione” per definire il processo di completa liberazione della popolazione irachena dalla paura e dalla violenza.

La soluzione, forse, potrebbe essere costruire Comitati locali per la Pace in ogni città, così che persone al servizio della comunità possano analizzare i conflitti locali, prevenirne l’escalation e trasformarli attraverso metodi nonviolenti.

La soluzione è costruire processi di riconciliazione nazionale dal basso, senza aspettare che il governo e le potenze regionali ne propongano uno. Ma dobbiamo ricordare che ogni sforzo per costruire la pace si scontra con forti interessi, e che abbiamo avversari anche più pericolosi di Daesh.

Nel 1961 il presidente degli Stati Uniti Dwight D. Eisenhower pose fine al suo mandato presidenziale mettendo in allerta la nazione sul crescente potere del “complesso militare industriale”: l’alleanza informale tra il settore militare e l’industria della difesa che lo rifornisce. Disse:

Nelle riunioni del governo dobbiamo guardarci dall’acquisizione ingiustificata di influenza – che sia stata richiesta o meno – del complesso militare-industriale. Il potenziale per la disastrosa crescita di poteri malriposti esiste e continuerà ad esistere. Non dobbiamo mai lasciare che il peso di questa combinazione metta a rischio le nostre libertà o i processi democratici. Solo una cittadinanza attenta e consapevole può garantire il giusto bilanciamento tra il grande apparato industriale e militare di difesa e i nostri metodi ed obiettivi pacifici, così che sicurezza e libertà possano prosperare insieme.
(Discorso di addio del presidente Eisenhower, 17 gennaio 1961)

Siamo convinti che queste parole siano valide ancora oggi nei paesi occidentali, che stanno sovra-finanziando la risposta militare al terrorismo e mettendo a rischio tutti gli sforzi della società civile per la riconciliazione e la giustizia transizionale. Ma sono parole valide anche per l’Iraq e il Kurdistan, anche se i vostri eserciti usano armi vendute dal complesso industriale bellico delle nazioni occidentali, che guadagnano da questo commercio di morte.

Per farlo, stanno togliendo soldi dai nostri budget nazionali, perché le nostre industrie militari sono fortemente sostenute dallo Stato. Oggi, in Italia, sono costretta a pagare una scuola privata per mandare all’asilo mio figlio, ed il mio congedo lavorativo per maternità è durato molto meno dei vostri, qui in Kurdistan.

Noi, come società civile globale, dobbiamo denunciare questi affari e tutti gli interessi sottostanti. E il modo migliore per combattere il sistema militare industriale è dimostrare che gli interventi di peacebuilding sono efficaci nel trasformare i conflitti. Dobbiamo dimostrare che la lotta nonviolenta è l’unica via per costruire un cambiamento sostenibile.

 

Le lezioni di Sulaimaniyah per la solidarietà internazionale
Ismaeel Dawood – Policy Officer di Un ponte per…

Signori e Signore buongiorno,
vorrei innanzitutto dare un caloroso benvenuto ed esprimere la mia gratitudine a tutti voi presenti, sia a mio nome che della rete ICSSI. Vi esorto ad aprire i vostri cuori per tutta la durata della conferenza, che vogliamo portare avanti con attenzione ed onestà.

Porgo i miei saluti alla città di Sulaymaniyah che ci ospita, al suo popolo gentile, a tutto il Kurdistan e alla sua amabile gente, ricordando la grandiosità ed il patrimonio culturale di questa terra, le stesse di cui parla l’illustre poeta iracheno Mohammed Mahdi Al Jawahiri nella sua poesia “Il mio cuore appartiene al Kurdistan” del 1964 in cui afferma:

Il mio cuore appartiene al Kurdistan e così la mia bocca e il mio sangue
E anche se povero, parlare del Kurdistan e amarlo mi rendono più nobile
E se nel mio corpo non restasse neanche una goccia di sangue, aprirei delle ferite per donarvene ancora
Divenendo io stesso un dono, una vittima che si sacrifica disperata e innamorata per la propria patria

E afferma anche:

Saluto l’imponente monte e la sua gente
e te che conosci i suoi figli, chi sono
e laggiù la terra, impregnata del sangue dei martiri
si espande cosi come si espande il germoglio

Voglio anche esprimere la mia profonda gratitudine verso tutti coloro che hanno sacrificato la propria vita nella lotta nonviolenta della storia di Sulaimaniyah, del Kurdistan e dell’Iraq, e a tutti coloro che hanno dedicato la vita per sostenere la libertà di pensiero e di espressione.

Voglio cogliere l’occasione per rivolgere il mio pensiero ai civili innocenti il cui sangue è stato ingiustamente versato a causa della dittatura e delle guerre, e a chi è caduto vittima dei crimini di Daesh. Rivolgo il mio tributo alle vittime della città di Halabja, del Sinjar, di Speicher, di tutto l’Iraq durante tutta la sua storia.

Un tributo a chi ha dato la propria vita per proteggere i civili, non con le armi ma con la forza e la generosità dei loro cuori, massima espressione di nobiltà d’animo. Alle donne e agli uomini delle forze di sicurezza: ai Peshmerga, al coraggioso esercito iracheno, ai volontari del sud del paese, e a tutti coloro che hanno combattuto strenuamente per difendere la popolazione civile, la loro terra, e la dignità umana.

E infine, i miei più sentiti ringraziamenti ai giovani di Sulaymaniyah e agli organizzatori di questa conferenza.

Questa conferenza affronterà il tema della solidarietà internazionale, ma in una città prestigiosa come questa non possiamo certo dare lezioni a nessuno. Siamo qui per imparare. Possiamo imparare moltissimo qui, da questa città, dal suo presente e dalla sua storia.

Possiamo imparare dal grande simbolo dell’attivismo nazionale iracheno e curdo, Sherko Bekas, figlio di Halbaja e di Sulaymaniyah, poeta e innovatore. Suo padre, Fa’iq Bekas, è stato un importante personaggio politico noto in tutto il paese ed un poeta di riferimento per i curdi. Si è battuto per la libertà delle donne ispirato dalle tesi di Qasim Amin e dalla poesia di Al-Rasafi, Al-Zahawi e degli altri poeti di quel periodo storico.

Sherko Bekas nel 1965 si unì ai gruppi della resistenza, su cui scrisse poemi, influenzato dalla poesia curda e araba, ed in particolare da quella palestinese. Il suo attivismo nelle fila della resistenza curda gli fece sviluppare una forte sensibilità per le battaglie di libertà di altri popoli: scrisse poesie dedicate alle Palestina ed una in morte di Mahmoud Darwish, il massimo poeta palestinese, dal titolo “E’ morta la luna e ho rimpianto tutte le poesie del mondo”. In essa recitava:

Fratello mio! Non ti alzi?
Sono tuo ospite mi chiamo Sherko Bekas, curdo, possiedo solo il vento e una manciata di poesia.
Anche se non ci siamo mai incontrati la poesia era la nostra luna perciò vieni fratello mio!
Perché non ti alzi in onore dell’ospite?
Vieni dal monte Halgurd
Ho portato con me la luna piena di queste montagne
i rabarbari
e le parole di mandorle dalle mie poesie

Eppure, la lotta di entrambi era così impegnativa che non si incontrarono mai. Bekas non incontrò mai Darwish di persona, ma furono sicuramente uniti dalla lotta, dalla resistenza, dalla solidarietà.

Non abbiamo tuttavia da imparare solo dalla poesia, dagli intellettuali, dalle élites. Siamo qui per imparare dalla gente comune, semplice, che anima le strade e le case, le scuole e gli ospedali. Siamo qui per imparare da voi.

Basta guardare a come Sulaymaniyah, Erbil, Dohuk, Kirkuk e migliaia di altri villaggi e città hanno accolto a braccia aperte e con grande generosità migliaia di rifugiati e sfollati arabi, curdi, ezidi, cristiani assiri: un arcobaleno iracheno e siriano.

Qui e ora, come abbiamo visto, solidarietà significa che tutti possono convivere, insieme. E da questo dobbiamo partire, con i cuori pieni d’amore, e ricordare ciò che ci avete dimostrato: che gli altri si possono accogliere. Siamo qui per imparare da tutto questo.

La conferenza di oggi ha a cuore questi temi, così come quelle precedenti che si svolgono ormai da quasi 8 anni. La prima fu nel 2009 a Feltre, in Italia. Nel 2010 siamo stati a Parigi e nel 2011 ad Erbil, capitale della regione del Kurdistan iracheno. Nel 2012 a Bassora e nel 2014 a Oslo, in Norvegia.

All’inizio del mio discorso ho parlato della solidarietà, ora permettetemi di concentrarmi su altre due questioni, non meno importanti. La nonviolenza e la società civile.

Con il termine società civile intendiamo tutte le realtà e le attività pubbliche che vengono realizzate all’interno del contesto civile, non solo dalle organizzazioni non-governative ma anche dai sindacati, dalle confederazioni, dalle reti informali, dai gruppi giovanili volontari. Sono molti gli attori che cercano di rafforzare i valori della convivenza, dei diritti umani e della libertà e nella loro lotta quotidiana adottano il principio della nonviolenza. Nonviolenza per noi significa inquadrare le nostre lotte in un percorso che possa determinare concreti e duraturi cambiamenti politici .

Sebbene non si voglia qui imporre la nonviolenza come unico strumento possibile, siamo convinti che la società civile irachena abbia di fronte una sfida ancor più grande di altre nello sviluppo dei metodi nonviolenti. E questo perché il cambiamento a cui miriamo non è di breve termine, ne’ provvisorio, ma piuttosto si manifesta in una lotta continua, a prescindere da chi governa oggi e da chi governerà domani.

La nonviolenza è una nostra responsabilità: è il dovere che abbiamo nei confronti della nostra società e del diritto ad una vita migliore. Nelle prossime ore, allora, ci concentreremo sulla lotta nonviolenta, sulla società civile, sulla solidarietà. Cercheremo di imparare dal vostro esempio e di capire cosa possiamo fare per rendere più forte la vostra lotta.

Siamo qui in solidarietà con voi, per la dignità umana, per la coesistenza pacifica e per i diritti umani. Grazie per aver accettato di ospitare la nostra conferenza, e buon lavoro a tutti!