L’Iraq che sa curare le proprie ferite

31 Gennaio 2017, 10:37

A metà gennaio, mentre Mosul est veniva liberata e una Tv curda parlava di 400 peshmerga sacrificati nelle ultime fasi di quella battaglia, a Sulaymaniyah oltre 250 esponenti dell’associazionismo riempivano un centro culturale per partecipare alla conferenza dell’Iraqi Civil Society Solidarity Initiative (Icssi).

Tra loro anche agenti dei servizi segreti locali, che osservavano nervosamente la folla variegata di attivisti per i diritti umani, spesso impegnati in scioperi e manifestazioni ma quel giorno interessati solo a partecipare al dibattito.

 

A convocarli, un’iniziativa internazionale di solidarietà, nata dai movimenti che avevano organizzato nel 2003 le grandi manifestazioni contro la guerra in Iraq, e che hanno poi voluto accompagnare la nascente società civile irachena – Ong, sindacati, movimenti sociali – nelle sue lotte per un altro Iraq.

 

 

I volontari di alcuni Centri giovanili locali accompagnavano ai loro posti donne che gestiscono Centri anti-violenza in Kurdistan, giovani attivisti di sinistra e ambientalisti venuti da Baghdad con l’Iraqi Social Forum, elegantissime esponenti del sindacato delle donne giornaliste irachene, operatori di pace che lavorano sulla trasformazione nonviolenta dei conflitti tra comunità della piana di Ninive, atleti che organizzano maratone per la pace, sacerdoti cattolici che accolgono sfollati nei loro monasteri.

 

Tra loro molte situazioni in comune: minacce e violenze subite per la propria attività in difesa dei diritti umani, talvolta il carcere, e sfiducia verso le istituzioni, alle quali addossano la colpa dell’arrivo di Daesh nel paese. Pari alla sfiducia verso l’Onu e le grandi Ong.

 

Una donna ha dichiarato all’assemblea che un bambino a cui era stato chiesto cosa fossero le Nazioni Unite ha candidamente risposto: “Sono quelle che aspettano che la mia casa venga distrutta per poi darmi una tenda”.

Credono invece nella solidarietà internazionale tra popoli, e per questo sono venuti da tutto il paese a Sulaymaniyah per parlare ai circa 30 membri di associazioni internazionali presenti, inclusi noi di Un ponte per…. Nessuna delle grandi Ong internazionali attive nella regione ha in realtà inviato suoi rappresentanti, ma durante la giornata ci siamo resi conto che il vero risultato politico raggiunto è stato il dialogo tra arabi, curdi e minoranze.

 

Questa mescolanza, che era diventata la norma per i movimenti sociali iracheni negli anni tra il 2008 e il 2013, si è poi fatta sempre più rara, e la società civile del Kurdistan opera ormai in totale autonomia da quella del resto dell’Iraq.

 

Non per colpa di Daesh, ma del modo in cui le istituzioni irachene hanno diviso tra loro le regioni del paese e le comunità, scoraggiando ogni impulso che dal basso spingesse per l’unità nazionale. Daesh non ha fatto altro che insinuarsi diabolicamente nelle crepe. Ma tanti sono i cittadini iracheni che rifiutano di tacere, di cui si possono leggere gli interventi in inglese sul sito di Icssi.

Jassim Al-Helfi da Baghdad descrive il movimento di protesta che ha assunto dimensioni nazionali di massa nel 2015 e ogni venerdì indice manifestazioni e iniziative di pressione contro la corruzione e il confessionalismo, avanzando proposte costruttive concordate tra forze laiche e islamiste del movimento, con una chiara strategia nonviolenta nelle pratiche di lotta, e orizzontalità nella presa di decisioni.

Awat Abdulla, sindacalista di Sulaymaniyah, racconta degli scioperi che organizza dall’inizio dell’anno scolastico perché a docenti e professori nel Kurdistan iracheno è stato dimezzato lo stipendio, che nemmeno arriva ogni mese. Ai politici invece non mancano risorse per le proprie mansioni di lusso ed eserciti privati, e poco si sa dei proventi che vengono dal commercio di petrolio con le potenze regionali.

 

La domanda di tutti è la stessa: perché la comunità internazionale si ostina a vendere o donare armi e munizioni agli eserciti che combattono contro Daesh senza esercitare alcun controllo sulla loro democrazia? Cosa succederà se poi questi rischiano di usare le armi contro i propri cittadini o per spararsi tra sé?

 

La guerra civile (1994-1997) tra partiti del Kurdistan iracheno, a cui tuttora fanno riferimento diverse fazioni di peshmerga, segnala che questi timori non sono del tutto infondati. Certo, anche la conferenza di Icssi si è aperta con un minuto di silenzio per tutte le vittime militari e civili della guerra contro Daesh, e tutti i partecipanti hanno onorato la memoria dei tanti caduti per combattere l’estremismo, ma ai microfoni è stato detto che il terrorismo si sconfigge solo con l’educazione, non depotenziando scuola e università.

 

La via per la ricostruzione dell’Iraq passa dalle persone qui presenti, che in un gruppo di lavoro hanno discusso di strategie per riabilitare le donne vittime di Daesh, per avviare programmi di peacebuilding, ma anche per dialogare con presunti collaboratori di Daesh, invece di cacciarli dalle loro case con le loro famiglie.

 

La speranza passa dai giovani di Hit, nella regione di Falluja e Ramadi, che mentre erano sfollati hanno tessuto i fili tra attivisti che da lì erano fuggiti in tutto l’Iraq e hanno fondato un’associazione, chiamandola come il bar in cui si trovavano in centro città.

Subito dopo la liberazione da Daesh sono tornati tutti assieme a Hit per fermare le campagne di odio, iniziando dalla ricostruzione collettiva delle scuole. Ora vogliono aprire una radio per diffondere il loro messaggio in ogni casa della città.

 

Alla Coalizione anti-Daesh, 68 paesi che investono quasi esclusivamente nella risposta militare al terrorismo, chiedono un briciolo di attenzione. Se vedessero l’Iraq da qui capirebbero che la risposta civile al terrore esiste, funziona e va sostenuta.

 

Chi continua ad esportare sistemi d’arma in Iraq, volente o nolente, rende più difficile il lavoro della società civile e sempre più complesso un futuro di convivenza in Iraq quando Daesh sarà stato respinto.

 

Martina Pignatti Morano – Presidente di Un ponte per…