Kelebija: vietato aiutare

13 Luglio 2016, 15:30

Una nuova testimonianza dal “Solidarity Van”, approdato al confine serbo-ungherese. Dove la polizia controlla, e spiega che è vietato aiutare altri esseri umani.

Il “Solidarity Van” è approdato a Kelebija, al confine serbo-ungherese, ormai da più di una settimana. Dopo essere stati fermati dalla polizia all’interno del campo, essendoci spostati a 500 metri di distanza, non abbiamo più avuto problemi. Fino a qualche giorno fa.

Abbiamo aperto un gruppo Facebook per cercare di richiamare altri volontari ed iniziare delle attività che potessero durare nel lungo periodo, altre persone sono arrivate qui per parlare con noi e coordinarci.

Anche iHo – I’m Human Organization, associazione serba che lavorava a Dimitrovgrad, al confine serbo-bulgaro, è arrivata qui per iniziare alcune attività.

Tutto questo movimento deve aver un po’ allarmato le forze dell’ordine che sono venute a trovarci chiedendoci i documenti e i biglietti da visita dell’associazione.

Ci dicono che devono trascrivere i nostri dati, quindi uno dei due agenti prende i nostri documenti e se ne va. Dopo 5 minuti il collega ci informa che l’altro poliziotto ha portato i nostri documenti a Subotica per controllarli al computer. Noi a Kelebija e i nostri documenti a Subotica.

Controllano anche i documenti del presidente di iHo, quelli della sua auto e della roulotte. Dopo un’ora se ne vanno perché qui ci possiamo stare, basta che non aiutiamo la gente intorno a noi.

Non possiamo distribuire cibo confezionato, neanche se è stato cotto e imballato in un bar o in un ristorante. Non si può fornire nessun tipo di aiuto. Ci hanno “concesso” Internet.

Il mattino successivo veniamo svegliati perché qualcuno bussa insistentemente alla porta: di nuovo la polizia. Questa volta il controllo è veloce.

Ci spiegano che non si possono aiutare le persone, che non si possono nemmeno distribuire vestiti. Qualsiasi tipo di aiuto tangibile è vietato. Ecco perché possiamo fornire wi-fi: la rete è invisibile, non si tocca, non contribuisce a migliorare le loro condizioni di vita come possono fare il cibo, l’acqua, dei vestiti puliti, delle docce o dei giochi per i bambini.

È uno stupido gioco in cui la polizia arriva, noi fermiamo le nostre attività e, quando se ne vanno, si ricomincia. Loro lo sanno, noi pure, ognuno recita il suo ruolo.

Tutto quello che possiamo fare in più l’abbiamo fatto, lo facciamo e continueremo a farlo perché siamo convinti che alle leggi ingiuste bisogna disobbedire. Quale legge può impedirci di dare aiuto a chi ne ha bisogno?

La disobbedienza civile è un dovere per chi, come noi, ha deciso di stare dalla parte di chi non ha diritti, dalla parte delle persone che vedono la loro dignità calpestata da questo sistema razzista.

È tale perché permette di viaggiare per vezzo o per cercare lavoro solo ad alcune persone e ad altre no. È profondamente ingiusto perché impedisce anche a chi fugge dalle guerre di trovare pace, una casa e un lavoro per vivere.

Se la solidarietà è un atto sociale, per noi significa vivere e condividere con le persone questo momento buio della storia che conta migliaia di morti nel Mediterraneo e migliaia di persone costrette a viaggiare clandestinamente, in balia della criminalità organizzata e degli eserciti.

Le violenze che subiscono sono sotto gli occhi di tutti, ma qualcuno preferisce tenerli chiusi.

E’ ora di aprirli, e tentare di restituire umanità a queste persone.