Lesbo. Figli di un male minore

18 Marzo 2016, 13:46

Non c’è solo la Siria devastata dalla guerra, o l’Iraq preda di Daesh. In migliaia a Lesbo arrivano da Pakistan, Afghanistan, Maghreb. Sono persone doppiamente invisibili, che le autorità si rifiutano di registrare.

 

Continua a cambiare la situazione qui a Lesbo.

Anche l’emergenza non è più la stessa. Siriani, iracheni, afghani continuano ad arrivare e, nonostante trovino poi le frontiere continentali chiuse, possono lasciare l’isola, raccogliendo le forze e le speranze per affrontare nuove difficoltà sulla rotta balcanica.

Sembra strano dover affermare che in questa condizione di dramma umanitario generalizzato, ci sia addirittura chi possa essere nella condizione di invidiarli.

Già, perché non c’è solo la Siria e la sua catastrofe umanitaria; non c’è solo l’Iraq devastato da anni di guerre e dalla furia di Daesh.

Ci sono altre centinaia, migliaia di migranti che fuggono da una miseria senza speranza, da violenze e persecuzioni ugualmente gravi e ai quali, oltre ad esser negato il diritto di richiedere asilo, non viene neppure riconosciuta la possibilità di “autodenunciare” la propria presenza in territorio greco.

Senza farlo, oltre ad essere automaticamente considerati clandestini, è impossibile avviare qualsiasi procedura di richiesta di asilo.

È il caso dei migranti pakistani, indiani, bengalesi, marocchini, tunisini e algerini. Categorie umane individuate su base etnica da Frontex: persone, che giorno dopo giorno stanno perdendo ogni speranza.

Prigionieri di un’isola che diventa sempre più una prigione a cielo aperto, impossibilitati a regolarizzare la loro posizione, inconsapevoli di essere giudicati e riconosciuti colpevoli esclusivamente per la loro provenienza.

Il meccanismo che si è creato sembra folle, ma è una lucida follia quella che muove le raccomandazioni della Commissione Europea. I migranti provenienti dal Pakistan in particolare, giunti in centinaia qui a Lesbo, sono l’esempio di un sistema che ormai si rifiuta anche solo di accertare le motivazioni che spingono a fuggire.

Parlando con loro ci si rende conto di quanto anche nelle tragedie esista sempre una scala di importanza, una selezione cinica che accetta e riconosce le problematiche umanitarie a seconda della funzionalità ricercata al momento.

Non tutti quelli che fuggono dalle violenze e dalle persecuzioni sono uguali per Frontex. Per i nostri governi, evidentemente, c’è un terrore più accettabile, meno grave, o quanto meno da non prendere in considerazione.

Anche loro fuggono: i loro carnefici si chiamano Talebani, vecchia conoscenza di quell’Europa che non più di 15 anni fa aveva contribuito a distruggere l’Afghanistan per rovesciarne il regime. Poi non si è saputo più nulla, i nemici sono cambiati, dopo Bin Laden c’è stato l’Iraq di Saddam Hussein, la Libia di Gheddafi e ora Daesh. Eppure, le violenze non si sono esaurite. Centinaia di villaggi in Pakistan sono tutt’oggi vittima delle persecuzioni talebane, esecuzioni di massa e terrore diffuso dei quali non si ha alcuna notizia.

Partiti dal Pakistan, dopo un viaggio interminabile fino alla Turchia dove molti di loro vengono schiavizzati dalla mafia locale per poter poi permettersi una traversata che a noi europei costerebbe non più di 20 euro, e che a loro invece ne costa circa 1.500. Queste persone, queste famiglie, rischiano la vita per approdare sulle coste greche, e al loro arrivo le istituzioni non ne registrano neppure la presenza. Si rifiutano di registrarli, come se non esistessero, rendendo impossibile ogni sorta di tutela legale.

Per la richiesta d’asilo hanno bisogno di quella registrazione, ma se si rivolgono alla polizia per autodenunciarsi ed avviare la procedura vengono arrestati e deportati in Turchia.

Nei campi, a differenza di poche settimane fa, si vedono sempre gli stessi volti. Ormai li riconosci, ed ogni giorno sono più tristi.

Quando ci parli ti rendi conto che non riescono a capacitarsi del fatto che per loro non ci sia alcuna speranza, non ci vogliono credere. Non possono uscire dal campo – qualsiasi controllo da parte della polizia potrebbe essere fatale -, non possono prendere il traghetto per Atene come i siriani o gli iracheni. Per loro è riservato un altro traghetto: quello che da Mitilene porta a Kavala, ultima tappa greca prima della deportazione in Turchia.

Continuano a coltivare il sogno di costruirsi una nuova vita in Europa. Inconsapevolmente continuano a chiedere di essere registrati, di essere almeno considerati e che vengano prese in esame le loro richieste.

“Anche noi abbiamo i terroristi, le persone muoiono, i villaggi sono saccheggiati, perché non possiamo salvare le nostre famiglie?”, si domandano.

Continuano a dire che i greci e tutti gli europei sono persone meravigliose, che non permetteranno ancora a lungo il protrarsi di questa situazione, come se si trattasse di un enorme malinteso del quale non tutti ancora siano a conoscenza.

Non sai mai come rispondergli, probabilmente perché una risposta che abbia un senso umanamente accettabile non c’è.

La frustrazione e il senso di impotenza cresce, tra di loro ma anche tra i volontari che si trovano a doversi confrontare con un nuovo tipo di emergenza: se prima nei campi si assisteva ad un continuo flusso di persone che arrivavano e partivano, ora la situazione sta cambiando.

Da luogo di passaggio, quei campi stanno diventando permanenti. E per quanto si cerchi di aiutare e fornire assistenza ai migranti, non si è preparati a gestire questa nuova situazione. Basti pensare che ad “Afgan Hill” il più grande campo di Lesbo gestito dai volontari, non ci sono nemmeno le docce.

Sono le prime conseguenze di quello che sarà l’accordo tra Unione Europea e Turchia, pronta a ricevere enormi finanziamenti per spegnere la luce su questa crisi umanitaria, per rinchiuderla e gestirla con i suoi metodi ed evitare così che il dramma di chi scappa dalla guerra, dalla miseria e dalle persecuzioni possa infastidire il nostro quieto vivere europeo.

Ieri notte, nella zona circostante al campo, uomini in borghese della polizia hanno effettuato rastrellamenti entrando nelle tende dove dormivano decine di migranti, hanno chiesto da dove provenissero, e alla risposta “Pakistan” è scattato l’arresto per 17 di loro.

Molti sono fuggiti all’interno del campo, i volontari li hanno nascosti nella cucina, nella tenda dei vestiti, in quella della distribuzione del tè. Gli agenti hanno tentato di entrare ad “Afghan Hill”, ma i volontari li hanno fermati, intimandogli di non poter entrare in un’area regolarizzata e formalmente privata.

Gli agenti si sono fermati, questa volta, ed andando via con 17 migranti ammanettati hanno lasciato un messaggio che suona come una minaccia, nemmeno troppo velata: “Sul traghetto di domani abbiamo ancora 10 posti liberi. O si presenteranno altri 10 di loro, o torneremo a prenderli”.

Ad” Afghan Hill” si è sancito così un nuovo turno notturno, di sorveglianza e di tutela spontanea e pacifica, che si oppone a quella banalità del male che pretende di considerare degli esseri umani come dei posti da riempire.

O più semplicemente, come in questo caso, delle vite da svuotare.