Lesbo. Nessun uomo è illegale

6 Gennaio 2016, 10:48

“La notte del 5 gennaio il primo sbarco da quando siamo sull’isola di Lesbo. Sono 50, tutti siriani. Ci abbracciamo: loro ce l’hanno fatta”. Il racconto dei nostri volontari.

Una luce a intermittenza, nel buio. Decine di volontari sulla spiaggia con acqua, coperte, torce. Ci segue il pullman dell’UNHCR, più attento ai nostri movimenti che alle segnalazioni delle autorità greche.

Li vediamo arrivare. Grida di aiuto ci arrivano da un gommone grigio di una quindicina di metri, fermo a qualche metro dalla spiaggia.

Troppo lontani per attraccare, ma abbastanza vicini per tirare un sospiro di sollievo. A differenza dei 36 naufraghi annegati poche ore prima tra le acque turche e quelle greche, loro ce l’hanno fatta.

I profughi che vediamo arrivare sulla costa di Mitilene, la notte del 5 gennaio, sono tra i primi ad attraccare sull’isola nel nuovo anno.

Le piogge e i venti che hanno inaugurato il 2016 hanno fatto temporaneamente diminuire le partenze.

Sono una cinquantina, tutti siriani. Uomini, donne, bambine, anziani.

Un uomo dalla gamba rotta fatica a scendere. Ce l’hanno fatta. Urliamo e li applaudiamo quando sono a pochi metri dalla riva. Li aiutiamo, li copriamo. Li abbracciamo, piangiamo con loro. Ce l’hanno fatta.

Giornate come quella del 5 gennaio sono ormai routine per i volontari internazionali stabilitisi a Lesbo da più tempo, isola così vicina alla Turchia da aver attirato centinaia di migliaia di sbarchi di richiedenti asilo nel solo 2015.

350.000, per l’esattezza.

Volontari accorsi da tutto il mondo per accogliere quei siriani, iracheni, afghani, iraniani, pakistani, curdi, nordafricani che hanno fatto rotta su Lesbo per arrivare in Europa.

Volontari membri di grandi organizzazioni o di piccole ONG, ma anche spontaneamente accorsi sull’isola.

C’è chi fa i turni di notte sulle spiagge, chi cucina, chi gioca con i bambini. Ci sono addirittura gruppi che sono riusciti ad istituire campi informali, come quelli di Pikpa e Afghan Hill: campi totalmente autogestiti che affiancano le attività di quelli istituzionali.

Nel nostro piccolo, noi di Un Ponte Per… stiamo garantendo la nostra presenza laddove c’è maggiore necessità, operando tanto in contesti d’emergenza (accoglienza dei rifugiati, allestimento campi, distribuzione aiuti umanitari) quanto in ambiti logistici (stoccaggio e inventario degli aiuti umanitari nei magazzini del campo di Pikpa).

Lontani dalla paura di un’invasione o di uno scontro di civiltà, siamo convinti piuttosto che la solidarietà e la cooperazione tra i popoli siano la strada giusta, e rifiutiamo l’idea dell’Europa fortezza, chiamata a difendere i propri confini.

Quelle gabbie, quei fili spinati, quei muri cadranno. Siamo qui per costruire un ponte tra l’Europa e il resto del mondo, e accogliere chi sta fuggendo da guerre, violenza e miseria.

Forse mentre si discute a Bruxelles su come chiudere le frontiere, qualcuno dovrebbe capire che a Lesbo, ed in tanti altri luoghi, c’è una generazione di persone che sta difendendo gli ideali di pace che hanno fondato l’Europa. E non vuole avere paura.

Luigi, Lorenzo, Giacomo e gli/le altri/e volontari/e sull’isola di Lesbo6