Voci dal Ponte #5: 15 anni di impegno e solidarietà

21 May 2014, 13:43

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Alessandro Di Meo, da anni impegnato con Un ponte per… in attività di volontariato in solidarietà con le vittime di ciò che lui stesso definisce la “guerra permanente”, è stato uno dei primi ad attivarsi per far fronte alla drammatica alluvione che si è abbattuta in Serbia e Bosnia nei giorni scorsi. Un gesto immediato e istintivo coerente con il suo forte legame con la regione. Alessandro è infatti il responsabile del programma di sostegni a distanza, accesso all’acqua e progetti di ospitalità per bambini in Serbia, Kosovo e Metohija, dove l’associazione è presente da oltre 15 anni.

Quindici anni fatti di solidarietà, azioni concrete, protesta politica e un grande lavoro culturale per far conoscere meglio e di più la realtà serba in Italia. Ha pubblicato, oltre a “Un sorriso per ogni lacrima”, che dà il titolo anche al suo omonimo blog, una raccolta di racconti-denuncia contro il razzismo,”Quando scelsi il posto dove sarei nato”. Inoltre, “Punti di fuga”, un altro insieme di racconti, e “L’Urlo del Kosovo”, con relativo documentario, sulle conseguenze dell’aggressione Nato alla Serbia, ad oltre 10 anni dai bombardamenti. Nel 2013 è la volta de “L’appuntamento”, diario di un’estate passata fra angoscia e speranza, fra la Serbia e la malattia della figlia.

“Gli anni di Rosa” è l’ultimo libro, pubblicato quest’anno. Un romanzo nato dal racconto di una donna serba, artista del ricamo a mano. Incontriamo Alessandro per farci raccontare la passione con che lo ha portato e lo porta ad impegnarsi ancora a favore della popolazione serba, sempre da volontario.

Partiamo dal tuo ultimo libro. Chi è Rosa? E cosa racconta la sua storia?

Rosa è un personaggio reale, ma in realtà nel libro ce ne sono tante, di rose. L’idea di questo libro nasce in un centro collettivo, che in precedenza ospitava delle terme e in seguito adibito all’accoglienza dei profughi dal Kosovo, ma non solo. C’erano profughi provenienti dalla Krajina, dalla Slavonia, dalla Croazia, dalla Bosnia e da tutte le zone colpite dalla guerra negli anni ’90. In quel periodo potevi trovare solo in Serbia profughi di tutte le ex repubbliche jugoslave, dato che gli stati che abbandonarono la Jugoslavia erano diventati stati etnicamente puri.

Rosa era lì, viveva quella situazione nel centro. La conobbi e mi colpirono molto le sue foto che mostravano brandelli di vita vissuta a Trieste. Una vita lasciata all’improvviso, “per 10 giorni, ero partita per andare dai miei genitori in seguito allo scoppio della guerra in Kosovo. Dieci giorni che sono poi diventati 10 anni”. Perché Rosa poi non è più tornata. Da qui parte l’idea di scrivere la sua storia, che ho immaginato evolversi in modo normale, tra amori, gioie, quotidianità e dolori. Una normalità tuttavia interrotta all’improvviso.

L’aspetto più interessante del libro infatti è proprio questa alternanza di normalità con i bombardamenti, di cui quest’anno ricorrono 15 anni. Cosa sono oggi i luoghi di Rosa?

Dopo 15 anni lo scorso 10 maggio a Milano abbiamo provato a fare un bilancio. Come attività dell’associazione è sicuramente un bilancio positivo, per le tante piccole ma grandi cose realizzate durante tutto questo tempo. Piccole ovviamente perché non si riesce ad arrivare a tutti, ma grandi perché nella loro concretezza hanno veramente costruito dei ponti di solidarietà con quelle persone che hanno perso tutto nel giro di pochissimo tempo. Sotto le bombe la gente viveva come anestetizzata, ma doveva vivere pensando che tutto sarebbe presto passato, che tutto sarebbe tornato alla normalità. Ma la normalità non tornò e i genitori di Rosa, come tante decine di migliaia di serbi, furono buttati fuori dalla loro casa, alla fine dei bombardamenti, dagli estremisti albanesi che tornavano ad occupare tutto il Kosovo e Metohija, anche le case e le terre che a loro non appartenevano, protetti in tutto questo dalle forze Nato della Kfor.

Tuttavia, guardando alla realtà di oggi, alle condizioni di vita delle persone, il bilancio è tutt’altro che positivo. La situazione non è cambiata molto. I serbi in Kosovo e Metohija vivono una situazione di vero e proprio apartheid, isolati da tutto. Restano discreti i rapporti con gli albanesi cattolici, una minoranza ma, rispetto a prima delle bombe, quando molti serbi e albanesi convivevano abbastanza normalmente, ora è davvero difficile pensare a una convivenza.

Quest’assenza di percezione della gravità della situazione sembra simile al modo in cui l’Europa, e in primis noi italiani, ci siamo storicamente curati poco di quello che stava succedendo a pochi chilometri dalle nostre case…

Certamente, ma questo perché come Paese noi eravamo parte attiva in quei bombardamenti, per cui tante cose sono state volutamente tenute nascoste. Io ricordo di uno dei primi volantini che distribuivamo nel ’99 e che titolava “i profughi invisibili”, riferito ai serbi, e che ebbe notevole impatto proprio perché nell’immaginario collettivo l’unico profugo possibile era albanese. Per il resto c’è stato silenzio assoluto, sia per quanto riguarda i bombardamenti del ’99 che il pogrom del 2004, che è stato altrettanto duro perché ha colpito soprattutto i beni culturali, come chiese, monumenti, letteralmente dati alle fiamme, segno della volontà di far sparire una cultura intera.

Da volontario sei spesso a contatto con i giovani. Come reagiscono oggi le nuove generazioni?

Vogliono andare via, percepiscono il malessere di un contesto fragile in cui non si sentono nemmeno tollerati e desiderano realizzarsi altrove. Le tante ragazze e ragazzi che abbiamo portato in Italia con Un ponte per… ce lo hanno dimostrato più volte. Si vede che sono entusiasti di potersi sentire liberi di fare qualsiasi cosa, senza timore alcuno, e quindi nasce in loro la voglia di andare via. E’ umano. Anche se i monaci, che resistono nei loro monasteri plurisecolari, cercano di far capire alle nuove generazioni quanto sia importante oggi la resistenza anche n quelle condizioni, perché si è parte di una catena, che non va spezzata e che va oltre la nostra semplice, effimera esistenza.

Quanto sono importanti la cultura e l’arte per provare a contrastare il silenzio e l’oblio?

Sono molto importanti per noi, per farci conoscere meglio una realtà fisicamente molto vicina, ma che, come abbiamo detto, mentalmente continua ad essere lontana. Però il problema rimane lì, nei banchi di scuola dove agli studenti albanesi vengono fatti studiare programmi che dicono che a un certo punto sono arrivati i serbi e li hanno cacciati e che tutto il patrimonio culturale serbo-ortodosso è costruito sulla cancellazione di una cultura passata. Questo è un falso storico enorme, ma se si cresce in questo modo… Se si cresce in questo modo tutto diventa più difficile, per questo la cultura e l’arte non sono sufficienti se non accompagnati dall’insegnamento della storia e dalla consapevolezza che la condivisione di tutto il patrimonio culturale, a chiunque appartenga, è fonte di ricchezza e non di divisione. Ma finché nel Kosovo e Metohija saranno mafie e malavita a comandare, tutto questo sarà difficilmente realizzabile.

Da dove nascono la passione e l’impegno per le realtà e le culture della Serbia, messe a disposizione da volontario per Un ponte per…?

Nascono nel ’99, all’inizio dei bombardamenti, partecipando alle manifestazioni di protesta, quando c’era ancora qualcuno che si indignava davvero. E allora erano 40-50 mila le persone che scendevano in piazza. E Un ponte per… era una delle poche e piccole realtà che prendeva in considerazione la parte invisibile della guerra, cioè la Serbia. Entrai in contatto con gli attivisti di allora, come Fabio Alberti, li andai a trovare e da lì partì una lunga storia. Fatta di tanti rapporti umani, bellissimi, che si sono intrecciati a tante situazioni e che in qualche modo hanno sempre avuto il tratto comune di rispondere a una certa rabbia. Ecco, Un ponte per… ha rappresentato e rappresenta ancora la possibilità di trasformare questa rabbia in positivo, unendo la protesta politica all’azione concreta. Perché accogliere un bambino serbo in Italia, che in un certo periodo significava “portare in casa il nemico”, era una sfida importante, ma che tutti insieme abbiamo vinto.

In cosa consiste oggi quest’impegno concreto?

Oggi sono circa 80 le famiglie che sosteniamo a distanza, fra Serbia e Kosovo e Metohija, mentre abbiamo realizzato 21 pozzi artesiani che servono più famiglie contemporaneamente. Inoltre, è dall’agosto del ’99 che abbiamo organizzato vacanze in Italia per oltre 40 minori ogni volta, senza considerare il nostro contributo alla realizzazione di vacanze per adolescenti in Grecia, in Serbia, in Montenegro, in collaborazione coi monaci in Kosovo o con la Croce Rossa Serba di Kraljevo. Nei tavolini di Un Ponte per… i ricami delle donne serbe andavano a ruba!  E potremmo continuare a raccontare per ore di tante altre iniziative realizzate…

Ecco, io credo che con questi piccoli gesti si costruisce la solidarietà e si lavora per un futuro migliore.