Covid-19: cosa succede in Medio Oriente e cosa stiamo facendo

24 March 2020, 18:49

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Uno dei grandi assenti dalla narrazione mediatica mondiale rispetto al diffondersi del contagio da Covid-19 è, come spesso accade, il Medio Oriente. Così come il lavoro di solidarietà che le ONG continuano a portare avanti, qui e nel resto del mondo.

Eppure, questa pandemia dimostra che pur godendo dei privilegi di paesi europei più attrezzati da un punto di vista economico e sanitario, è possibile superare questa crisi solo se lo facciamo tutte e tutti insieme.

Iraq, Siria, Libano e Giordania sono i paesi nei quali noi di Un Ponte Per lavoriamo e siamo presenti dagli anni Novanta. Anche qui il contagio si sta diffondendo e anche noi siamo stati costretti/e a rimodulare il nostro intervento, restando operativi/e dove possibile, pur nel rispetto delle limitazioni necessarie a garantire la sicurezza di tutte e tutti.

Si tratta di paesi che sono stati attraversati da guerre, terrorismo, conflitti, povertà, e che accolgono centinaia di migliaia di persone sfollate interne e rifugiate in campi profughi e insediamenti urbani informali. Paesi in cui i sistemi sanitari sono fragili e spesso troppo deboli per gestire emergenze di proporzioni simili a quelle che stanno mettendo a dura prova l’Italia e l’Europa. Di fatto non esiste un sistema sanitario nazionale, e la sanità pubblica, seppur anche in questi paesi unica deputata alla risposta al Covid-19, è ridotta al minimo, stretta fra l’assenza delle risorse e la supremazia di strutture di sanità privata comunque impreparate a rispondere a questa emergenza, anche qualora le si volesse impiegare.

L’esclusione dall’assistenza sanitaria delle componenti più vulnerabili, come rifugiati/e e sfollati/e, rischia di generare un disastro.

Ed è proprio lì, nei campi profughi in cui operiamo da anni, che il rischio di diffusione del contagio è maggiore: se arrivasse e toccasse i numeri europei, ci troveremmo di fronte ad una vera e propria catastrofe umanitaria.

I nostri colleghi e colleghe nel mondo

Il nostro staff italiano ed espatriato nelle Missioni estere ha rinunciato in buona parte a rientrare in Italia perché non vogliono abbandonare questi paesi nel momento della crisi, e dato che ogni possibilità di ritorno tempestivo in caso di partenza sarebbe altamente improbabile. Hanno scelto di sospendere le ferie, i periodi di stacco previsti per il nostro settore, di restare lontano dai propri affetti.

Ci preme ricordare che come noi ci sono migliaia di cooperanti nel mondo che hanno scelto di restare al loro posto, con altissimo spirito di servizio, e che stanno operando in condizioni di rischio per continuare a sostenere popolazioni decisamente meno servite, paesi molto meno attrezzati dei nostri.

Lo fanno perché in questo momento siamo tutte e tutti interconnessi, e mai come in questo periodo storico possiamo permettere che qualcuno resti indietro. Stiamo comunque lavorando in rete con le altre ONG per garantire il rimpatrio del personale italiano espatriato in caso di necessità medica, anche per non affollare strutture sanitarie già fragili con la nostra presenza.

Tutto il nostro staff (internazionale e locale) è stato informato e sensibilizzato su tutte le misure di prevenzione ed i comportamenti raccomandati fin dalle prime ore anche attraverso apposite formazioni online, come quelle dell’OMS.

Gli uffici si sono prontamente attrezzati con diminuzione delle presenze e disponibilità dei presidi necessari come i detergenti a base alcolica fin da fine febbraio, per poi arrivare alla chiusura all’alba del lockdown con lavoro da remoto. Lo staff meno abituato a lavorare da remoto è stato seguito ed inserito in questa nuova modalità lavorativa.

Iraq

L’Iraq ha riportato ad oggi 233 casi e 20 vittime. Ha imposto il coprifuoco dal 14 marzo, chiudendo tutti gli aeroporti anche nella regione autonoma del Kurdistan. Sono state chiuse tutte le attività per tentare di contenere la diffusione del contagio, ma sappiamo bene che la situazione rischia di degenerare: soprattutto nei tanti campi in cui siamo presenti, che accolgono persone rifugiate e sfollate, dove le condizioni igienico-sanitarie sono davvero precarie. Basti pensare alla difficoltà di accesso all’acqua, necessaria per lavarsi regolarmente le mani. Da subito abbiamo seguito le indicazioni delle autorità locali e ridotto le attività, trasferendo online e in streaming eventi e dibattiti su diritti umani, coesione sociale e pari opportunità.

Nei limiti di sicurezza imposti stiamo però lavorando per lasciare attivi alcuni servizi che riteniamo essenziali: la gestione dei casi di violenza contro le donne e la linea telefonica attiva h24 dedicata alle vittime di violenza domestica, che potranno quindi continuare a chiedere sostegno e protezione.

Attive anche le consulenze psicologiche e i servizi sanitari di salute riproduttiva per le donne con le opportune precauzioni di sicurezza. Inoltre, continuiamo a portare avanti dal primo giorno di emergenza campagne di prevenzione e informazione per contenere la diffusione del contagio quanto possibile, in linea con le direttive dell’OMS e per sostenere le autorità locali.

Siria (Nord Est)

In Siria è stato dichiarato il primo caso positivo al Covid 19 due giorni fa, identificato a Damasco come “di importazione”. Tuttavia, ci sono motivi per ritenere che i casi siano molti di più, e che il regime siriano non li stia rivelando. Diverse organizzazioni internazionali, tra cui IRC e OMS, hanno lanciato l’allarme: se il virus dovesse diffondersi nel paese, già provato da 8 anni di guerra, con strutture sanitarie distrutte e una popolazione sfiancata e in gran parte sfollata, sarebbe una catastrofe senza precedenti.

Noi siamo operativi/e nell’area del Nord Est e su quella possiamo fornire aggiornamenti. Qui la situazione è di altissima vulnerabilità, soprattutto in seguito all’offensiva militare lanciata dalla Turchia nell’ottobre 2019. Si stima che ci siano ancora 70.000 persone sfollate come diretta conseguenza, e solo 1 dei 16 ospedali presenti è completamente funzionante. 

Al momento su una popolazione di circa 3 milioni di persone (solo nel Nord Est) non esitono posti letti di terapia intensiva.

Sul campo restiamo operativi/e e stiamo lavorando su prevenzione e contenimento del contagio. Stiamo conducendo sessioni di informazione nelle nostre cliniche, attrezzando zone di triage e insieme ai nostri partner locali e ai donatori stiamo lavorando per ricalibrare il nostro intervento e concentrarci sulla costruzione di posti letto di terapia intensiva, del tutto assenti nell’area. Nel coordinamento tra ONG e OMS abbiamo scelto di attrezzare per la risposta al Covid-19 gli ospedali di Derek (vicino al confine iracheno), Membij (a Ovest di Kobane) e Tabqa (a Sud-Ovest di Raqqa).

Giordania

In Giordania è stato imposto un sistema estremamente rigido per contenere il contagio. Sono stati chiusi i confini del paese a tempo indeterminato, dichiarato lo stato di emergenza e annunciato un coprifuoco totale. La gestione dell’ordine pubblico è stata affidata all’esercito ed è stata ordinata la chiusura di tutti gli esercizi commerciali, anche quelli alimentari, consentendo alla popolazione esclusivamente acquisti online.

I casi al momento confermati sono 112, ma i timori più grandi riguardano la popolazione rifugiata siriana. Per rispettare le disposizioni governative tutte le nostre attività sul campo dedicati alle persone rifugiate e con disabilità sono state sospese e lo staff locale e italiano lavora da casa ad Amman. Ma stiamo cercando di ristrutturare il nostro intervento per essere operativi/e ed efficaci nell’immediato futuro.

Libano e campi profughi palestinesi

Il Libano è entrato ufficialmente in bancarotta il 9 marzo scorso, andando a sommare una crisi economica gravissima all’emergenza sanitaria. Il governo ha dichiarato lo stato di emergenza, chiudendo gli aeroporti e la maggior parte degli esercizi commerciali. Anche qui il sistema sanitario non è in grado di fronteggiare una diffusione di massa del contagio.

A questo si aggiunge la preoccupazione per la popolazione rifugiata palestinese e siriana – quasi 2 milioni di persone – che è stata tagliata fuori dalla programmazione governativa di gestione dell’emergenza sanitaria.

Nei campi già si assiste ad un grave sovraffollamento e a condizioni igieniche precarie: è presente l’Unwra, ma i piccoli ospedali di sua competenza non sono assolutamente attrezzati per gestire una diffusione del contagio. Per questo, la popolazione dei campi è in auto-isolamento ormai da giorni.

Proprio nei campi palestinesi noi siamo presenti dal 1997 con programmi di sostegno all’istruzione di bambine e bambini. I Centri educativi del nostro partner locale sono stati temporaneamente chiusi e lo staff lavora da casa. In Libano era inoltre attivo il nostro programma dei Corpi Civili di Pace, con 6 giovani italiani/e impegnati/e sul campo in supporto al nostro lavoro. Tutte la attività sono state sospese.

La notizia dell’imminente chiusura dei confini e dell’aeroporto di Beirut, lo scorso 14 marzo, ci ha costretti/e a prendere una decisione difficile. Su indicazione delDipartimento di Servizio Civile abbiamo dovuto chiedere alle nostre operatrici e ai nostri operatori di rientrare temporaneamente in Italia. Dal giorno seguente ci siamo attrezzati/e con tutti i nostri partner locali per portare avanti il nostro intervento quanto più possibile da remoto.

NB: Questo aggiornamento è datato 24 marzo 2020, le condizioni nei territori potrebbero variare di ora in ora. Nei prossimi giorni pubblicheremo nuovi e più approfonditi aggiornamenti sulla situazione nei paesi in cui operiamo.