Alle radici ideologiche di un crimine sconfiNato

10 September 2021, 11:59

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L’impalcatura propagandistica che sdoganò la guerra “umanitaria” dopo la caduta del Muro di Berlino è franata su se stessa evidenziando le vere ragioni per le quali si è tenuto in piedi il più grande, sofisticato e dispendioso apparato militare della storia: l’Alleanza atlantica

di Alfio Nicotra*

Co-Presidente Nazionale di Un Ponte Per

La rovinosa fuga dall’Afghanistan rappresenta, oltre che una tragedia per decine di migliaia di afghani, un danno d’immagine probabilmente irreversibile per la Nato. Già nel novembre del 2019, il presidente francese, Emmanuel Macron, davanti all’invasione turca della Siria, aveva parlato di “morte cerebrale” dell’Alleanza Atlantica. Le immagini della folla disperata all’aeroporto di Kabul rimbalzano sui teleschermi del mondo e certificano il fallimento della strategia cominciata con il conflitto in Jugoslavia e con la prima guerra contro l’Iraq, con la quale si era imposto al mondo il rilancio della Nato come “gendarmeria globale” a servizio degli interessi Usa ed occidentali. Tutta l’impalcatura ideologica e propagandistica con la quale si era sdoganata la guerra dopo la caduta del Muro di Berlino – guerra umanitaria, per i diritti umani, la democrazia, i diritti delle donne e delle minoranze – frana su se stessa mettendo a nudo le vere ragioni per le quali si è tenuto in piedi il più grande, sofisticato e dispendioso apparato militare della storia dell’umanità. Adesso sono caduti tutti i veli. Degli esseri umani in carne ossa, del destino del popolo afghano costretto ormai a quattro decenni di guerra, alla Casa Bianca e ai governi della Nato che dal 2001 occupavano con armi e armati il paese asiatico, non interessa un fico secco a nessuno. L’unico velo che viene innalzato adesso è quello del burqa sotto il quale rischiano di essere seppellite le donne dal ritorno al governo dei Talebani e dalle reazionarie leggi della sharia.  Eppure, nonostante la frana abbia dimensioni gigantesche, il dibattito pubblico in Italia fatica a diventare tale e sembra prigioniero di un superficiale teatrino di dichiarazioni dei leader politici in fuga anch’essi dalle proprie responsabilità, quasi non avessero mai sostenuto ed approvato 20 anni di guerra all’Afghanistan.

Solo nel 2006, nell’imminenza dell’approvazione dell’ennesimo decreto missioni, si parlò in modo diffuso e acceso, della partecipazione italiana all’occupazione dell’Afghanistan. Fu per merito, poi diventato demerito, di Rifondazione Comunista, costola sinistra di quel governo dell’Unione guidato da Romano Prodi, che proprio sull’Afghanistan cominciò quell’impantanamento nel campo minato delle missioni militari che di li a poco meno di due anni avrebbe portato alla cancellazione dal Parlamento della sinistra radicale e al ritorno al governo di Silvio Berlusconi. Stretta tra la necessità di portare a casa il ritiro delle truppe dall’Iraq e l’imposizione dell’Ulivo di mantenerle a Kabul, Rifondazione ma anche il Partito dei Comunisti Italiani ed i Verdi , subirono una fortissima contestazione interna, con assemblee infuocate, dissensi di parlamentari ed espulsioni dal partito. Per chi era nato nel 1991 con nel proprio Dna il ripudio della guerra ed aveva animato le grandi mobilitazioni di massa per la pace e il disarmo dal social forum di Firenze (2002) alle colossali manifestazioni contro la seconda guerra all’Iraq – la più grande della storia dell’umanità, i 110 milioni in piazza in tutto il mondo, il 15 febbraio 2003 – fare i conti con i rapporti di forza e la realpolitik imposta da alleanze spurie, fu l’inizio della fine. Rotta e cancellata dalle aule parlamentari Rifondazione Comunista , l’Afghanistan è sparito dai riflettori del dibattito pubblico, con una iniziale “resistenza” del M5s che ha votato sempre contro fino a quando non si è trasformato in un partito governativo. L’ultimo provvedimento di autorizzazione delle missioni internazionali, nonostante fossero già chiare le intenzioni dell’amministrazione Biden, ereditate in questo da quella del suo predecessore Trump, di lasciare l’Afghanistan, è stato approvato da pressoché tutte le forze politiche rappresentate in parlamento.

Questa unanimità ci dice molto su cosa significhi il giuramento di “fedeltà atlantica” inevitabilmente richiesto a chiunque voglia varcare la soglia di Palazzo Chigi. Un atto di “fede” appunto, assolutamente acritico, che non è stato in grado mai di dissociare l’Italia dai peggiori disastri militari degli ultimi decenni, non solo l’Afghanistan ma anche l’Iraq e la Libia. Davanti a questo monumento di fallimenti che “la teoria del caos” statunitense ha creato quasi ovunque la Nato abbia agito fuori dai confini giuridici sulla quale nel 1949 era sorta, ci saremo aspettati una rimessa in discussione dei modelli di difesa a “lungo braccio”, degli inopinati “interessi nazionali” da difendere con le armi e le spedizioni militari ovunque essi si reputino minacciati. Non è così. La timida autocritica da parte del leader Pd Enrico Letta sugli errori fatti assomiglia molto alle scuse di Tony Blair sulla inconsistenza delle prove delle cosiddette armi di sterminio di massa che giustificarono l’invasione dell’Iraq nel 2003. Non ci sono scuse che tengono davanti a crimini contro l’umanità, di fronte alle condizioni d’insicurezza con cui questo continuo ricorrere alla forza delle armi ha gettato il pianeta. Terrorismo e fondamentalisti settari e religiosi sono figli di queste guerre infinite e cieche, tanto che ormai siamo abituati a considerare “normali” le autoblindo ed i militari dispiegati nei nostri centri abitati a testimonianza che la linea del fronte, nell’epoca della globalizzazione, non ha frontiere che tengano. La verità è che la politica dovrebbe sapere prima cosa bisogna fare, magari attenendosi a quel vilipeso articolo 11 della Costituzione che invece risulta essere il più violato dalla caduta del Muro di Berlino in poi. Perché non vi è una forza politica che considera la pace come il solo buon investimento a cui dovrebbe tendere un governo nell’interesse prioritario dei suoi cittadini?

Certo l’enorme giro d’affari messo in moto dal complesso bellico industriale è un boccone di dimensioni gigantesche passato, in termine di spese militari, a livello globale dai 1.044 miliardi di dollari del 2001 agli attuali 1.960 miliardi (dati Sipri). Praticamente la “guerra al terrore” cominciata con la punizione collettiva inflitta al popolo afghano in seguito agli attentati dell’11 settembre, ha aperto una voragine nei conti pubblici distogliendo una gigantesca mole di risorse che hanno ingrassato quelli che il compianto padre Eugenio Melandri chiamava “i mercanti di morte”. L’Afghanistan ci dice inoltre che queste risorse sono state usate male anche per i fini ufficialmente dichiarati. Come quelli di formare l’esercito afghano, 300 mila uomini armati di tutto punto ed addestrati anche dai nostri militari, che si sono dissolti come neve al sole una volta che le truppe Nato hanno cominciato il ritiro. Non prima, ovviamente, di aver lasciato equipaggiamenti moderni ed armi sofisticate (inclusi i droni) nelle mani dei Talebani che ora risultano essere uno degli eserciti più armati del mondo.

Tutto questo avviene proprio mentre l’Italia perde una delle voci più lungimiranti degli ultimi decenni. Quel medico chirurgo, Gino Strada, che invece di bombardarli quei popoli li curava. Il fallimento dell’interventismo armato dovrebbe indurre ad una rivoluzione del pensiero e delle strategie dell’occidente ed in particolare dell’Europa. Partendo dal considerare il multilateralismo una forza e non una debolezza, rilanciando le Nazioni Unite come le sole legittimate ad intervenire nel contesto internazionale e avviando su scala generale una politica di disarmo a cominciare da quello nucleare ma anche dalle moderne armi automatiche (killer robot). Fermare le guerre deve tornare ad essere una priorità della politica rafforzando diplomazia e cooperazione, facendo capire che l’interesse nazionale più alto, in un pianeta messo in ginocchio dalla pandemia, è quello di costruire un ordine di giustizia sociale e di pace.

*articolo originariamente pubblicato su Left, n.34, uscito il 27 agosto 2021.
Foto copertina di Shamsia Hassani ©