ICSSI ‘22: un viaggio fra la meglio gioventù irachena

21 March 2022, 10:35

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Dopo due anni di pandemia, a Sulaymaniyah torna ad incontrarsi l’Iraqi Civil Society Solidarity Initiative (ICSSI), la piattaforma internazionale di solidarietà con attivisti/e irachene. Una settimana di confronto sorprendente a cui abbiamo avuto il privilegio di partecipare.

di Edoardo Cuccagna, Ufficio Comunicazione Un Ponte Per

Nel 1991 come Un Ponte Per volevamo ‘risarcire’ il popolo iracheno per ciò che gli era stato tolto. L’occidente, troppo impegnato ad esportare “democrazia” con le armi, sembrava non considerare ‘umana’ la carne di quelle persone sotto le bombe.

Da allora, l’idea del risarcimento si è naturalmente evoluta verso il sostegno, camminando insieme a quella parte di umanità. Un percorso che non si è ancora arrestato.

Siamo tornate/i con UPP a Sulaymaniyah, nel Kurdistan iracheno, per l’undicesima conferenza dell’Iraqi Civil Society Solidarity Initiative, intitolata “Starting over from solidarity”, ‘Ripartiamo dalla solidarietà’.
Una conferenza che in verità è stata una settimana di assemblee aperte, uno spazio di confronto reale, militante, a tratti anche duro, in cui la società civile irachena e internazionale sono tornate a condividere strategie per il cambiamento.

Si è discusso di molte cose, ma il grande punto fondamentale rimane la costruzione: costruire una pace giusta, costruire coesione sociale, costruire una nuova società irachena che garantisca i diritti delle donne, il diritto all’educazione per tutti/e, giustizia sociale, ambientale, di genere. E si è discusso di come riuscire a tenere insieme tutti questi aspetti, senza sacrificarne nessuno. Si è ragionato su come mantenere unite le diverse reti di attivismo, le diverse ‘anime’ nate in seno alla “Tishreen”, la grande onda di proteste irachene del 2019.
Hanno partecipato persone, associazioni e forum per la pace da tutto l’Iraq e il Kurdistan: Baghdad, Falluja, Diyala, Ninive ecc. Tra le persone presenti c’è chi è stato arrestato, ferito, minacciato durante quelle proteste. C’è anche chi ha perso una persona cara.

C’eravamo anche noi di Un Ponte Per, perché crediamo ostinatamente nella costruzione della pace senza le armi e senza le bombe. Per noi non c’è altra strada: bisogna sostenere i ragazzi e le ragazze irachene nelle loro lotte, ascoltarli, imparare, conoscere i loro sogni, crescere insieme. Antonio Papisca ci ricordava sempre che “la pace non è il suo nome ma ciò che la fa, la pace è verbo più che sostantivo, la pace impossibile è l’unica possibile”.

Voci dell’attivismo iracheno

Erano tantissimi i forum locali presenti a Sulaymaniyah: un sistema capillare di spazi di confronto decentralizzati che uniscono poi le forze nell’Iraqi Social Forum. Come ad esempio il Fallujah Peace Forum, che contrasta la presenza massiccia di milizie a Fallujah e lavora per la coesione sociale, o il Diyala Social Forum, in prima linea per la difesa dell’ambiente e dei fiumi nel governatorato di Diyala.
C’era ‘Humat Dijla’ e ‘Save the Tigris’, un insieme di attiviste/i locali e internazionali impegnati nella salvaguardia dei due grandi fiumi della Mesopotamia, ridotti per diversi tratti a poco più di ruscelli inquinati. La salvaguardia delle acque contro la desertificazione è un atto di profondo coraggio di fronte ad un sistema politico indifferente, che ignora le istanze di cittadini/e, facendo della corruzione e della speculazione la propria cifra distintiva.
C’erano anche i membri del Community Peacemaker Team, impegnati nella campagna #EndCrossBorderBombinginIraqiKurdistan che si batte contro i vergognosi bombardamenti (turchi e iraniani) di confine sui piccoli villaggi sperduti delle montagne curde, dove poche persone resistono, gli ospedali sono lontani, le strade ancora sterrate.

Erano presenti Batool, Ramiiz, Sahar, Salman, Lodia, Kamaran, Carrar, Harith solo per citare alcuni dei loro nomi. I loro occhi sono profondi e gentili, la loro voce è ferma e coraggiosa mentre racconta con passione la voglia di cambiare. Nessuna/o tra loro è stata/o risparmiata da minacce, violenze, arresti. Diversi sono stati costretti a fuggire in Kurdistan per questi motivi, esuli nel proprio stesso paese.

Ahmad è scappato in Kurdistan da Baghdad nel 2019. Nel 2011, quando era molto giovane, era già stato arrestato qualche giorno per aver partecipato alle proteste. “Mi caricarono su un’ambulanza, credevo di andare in ospedale”. Una notte di circa 3 anni fa capì di essere seguito mentre tornava verso casa. Una macchina si trovava dietro di lui e degli uomini scesero furtivi, probabilmente per rapirlo. Ahmad si attaccò con tutte le sue forze a un palo della luce, mentre gli uomini cercavano di portarlo via. Si attaccò alla vita, letteralmente. Riuscì a resistere il tempo necessario affinché giungessero sul posto altre persone, permettendogli di fuggire. Corse a casa, fece rapidamente i bagagli e scappò via.
Non è più tornato a Baghdad.

Jamel invece è un attivista, membro della campagna ‘Difendi i/le difensori/e dei diritti umani’. Racconta le grandi violenze verso attivisti/e, non senza un certo grado di disillusione – “Possiamo solo provare a contenere il fenomeno”. Si chiede come proteggere le persone prima che la violenza accada (e non soltanto dopo). Una sera dopo cena, insieme ad Harith hanno chiesto al nostro gruppo quanto fosse letto Gramsci in Italia. Una risposta precisa non abbiamo saputo articolarla. Fossimo riusciti, sarebbe stata forse deludente. Ma da quel momento è cominciata una discussione politica entusiasmante, durata ore e ore.

Iraqi Civil Society Solidarity Initiative, qualche chiarimento

In Iraq oggi più del 60% della popolazione ha meno di 24 anni. Ragazzi e ragazze che attendono disperatamente risposte ai loro sogni, risposte che ancora oggi si sostanziano in due principali alternative: andare via per cercare fortuna altrove, o scegliere le armi ed entrare in una milizia.  Abbiamo scelto di non sottometterci a questo triste dualismo, sostenendo l’affermazione sociale e politica di giovani attiviste/i affinché abbiano le capacità e il coraggio per costruire insieme una pace giusta e una società immune da nuove recrudescenze di violenza. Lavoriamo per dare spazio al Paese che resiste, che non smette di vivere e costruire, di vibrare di umana speranza alla ricerca di una vita dignitosa.

Dall’imperativo morale e politico di sostenere queste persone è nato ICSSI, che come Un Ponte Per abbiamo scelto da subito di sostenere perché crediamo, come credeva Sartre, che ‘ogni scelta individuale riguardi l’intera umanità’.

Ma come funziona praticamente ICSSI? Proviamo a dare qualche risposta:

  • In ICSSI si crede nella necessità di un equilibrio di genere e di un uguale potere decisionale tra i generi. Preso atto che questo equilibrio non esiste, sosteniamo innanzitutto il protagonismo e il femminismo delle sorelle irachene.
  • In ICSSI è adottato il metodo del consenso nei processi decisionali, perché crediamo sia prima di tutto un atto di nonviolenza.
  • Il lavoro di ICSSI è politico? Di certo ICSSI non sostiene nessun partito, eppure è un lavoro profondamente politico, nel senso più nobile del termine. Harith lo dice con imbarazzante semplicità: “Credete che sostenere il femminismo e la lotta delle donne per i diritti in Iraq, non sia un atto politico?”.
  • ICSSI sostiene l’educazione pubblica di qualità, gratuita per tutti/e, come diritto fondamentale di tutte le persone irachene.
  • ICSSI sostiene i sindacati dei lavoratori, perchè la costruzione di una pace giusta non può tollerare la schiavitù lavorativa. Ali Saheb di Infocentre è chiarissimo nel fotografare la reale situazione irachena – “secondo alcuni dati il 20% delle persone in Iraq hanno raggiunto un grado dignitoso di sicurezza sociale. La realtà è ben diversa, solo il 4% della popolazione in Iraq vive una vita dignitosa”.

La Thawra delle donne

I valori di ICSSI coincidono con tanti degli ideali rivendicati dalle proteste irachene del 2019. In quelle proteste tantissimi attiviste/i sono stati minacciati, feriti, costretti a fuggire o hanno perso la vita. Per questo in diversi momenti dell’assemblea ci sono stati momenti di cordoglio e raccoglimento.

A distanza di 3 anni però, la “thawra” (rivolta) irachena sembra alle spalle.
Secondo le stesse protagoniste quel livello di mobilitazione è oggi irripetibile.

Allora perché continuare a parlarne?

La rivoluzione giovanile del 2019 – anche rispetto alle primavere arabe – è ancora oggi un modello inimitabile di mobilitazione per diverse ragioni: ad esempio, a detta di moltissime attiviste irachene, ha rappresentato la prima partecipazione femminile di massa ad un processo politico. In questo senso la rivoluzione del 2019 ha fatto la storia, costituendo una rottura sociale così forte, dalla quale è impossibile tornare indietro. Alcune donne di quelle proteste sono oggi in parlamento, elette tra i nuovi partiti indipendenti. Ciononostante, come ci hanno spiegato le stesse attiviste presenti, la strada da percorrere è ancora lunga.

Shadha, dell’Iraqi Women Network crede che il primo obiettivo da porsi sia ancora oggi quello di “includere le donne – e in particolare le donne delle minoranze – nei processi decisionali, lasciando loro le posizioni di leadership”.

In un passaggio particolarmente d’impatto, Shadha riferisce all’assemblea di aver sentito, con piacere, che tutti gli uomini presenti concordano sull’importanza della parità di genere. Ma la triste realtà è che ancora oggi “le donne in posizione di vertice sono troppo poche”.

Questi i medesimi propositi della piattaforma SheRevolution e del progetto Al Thawra Untha (La rivoluzione è donna) che come Un Ponte Per sosteniamo. Le attiviste affermano continuamente quanto sia urgente creare uno spazio sociale sicuro per le donne, in cui sentirsi effettivamente libere di esprimersi, di lottare, di guidare i processi.
Le ragazze sono ben consapevoli di come il discorso sulle donne sia spesso avvolto da una nuvola di ipocrisia. “In tanti dicono di supportarci, ma le decisioni che contano arrivavano ancora dall’alto, dagli uomini”.

SheRevolution e Al Thawra Untha lavorano in prima linea per cambiare le norme tradizionali. Lamentano che in Iraq manca ancora una militanza femminista su larga scala ed è proprio ciò che vogliono costruire – “Vogliamo dare voce a chi finora non l’ha mai avuta”.

Grazie al loro lavoro già oggi esistono assemblee femministe locali, disseminate in tante province, come a Baghdad, Basra, Najaf, Tanniqa ecc. Sono assemblee partecipate da tante ragazze e anche qualche ragazzo, che appoggia la causa – “perchè la norma patriarcale opprime anche loro”.

Raccontano di essere stanche dello stigma, stanche di essere puntualmente vittimizzate dai media. Secondo Harith – “il problema è il sistema patriarcale globale, non il singolo uomo orientale o la singola società. Le donne sono costantemente vittimizzate e noi siamo esauste”.

Le Tishreen hanno completamente ribaltato l’idea delle donne vittime. Le ragazze delle proteste hanno spezzato con i loro corpi i ruoli di genere precostituiti, dimostrando quanto grande sia il loro peso in ogni cambiamento possibile.

Siamo felici di constatare che l’assemblea ICSSI è un luogo di discussione aperta, dove donne e ragazze irachene non hanno timore a prendere la parola, facendo valere la propria posizione anche al costo di alzare la voce.

Sulle tracce di Abuna

Il 5° giorno di assemblea ICSSI si è tenuto in un luogo speciale. Un luogo che “il Ponte” conosce da tanto tempo: il monastero di Padre Jens a Sulaymaniyah. Il prete svizzero è una figura mitica, tale da andare oltre l’appartenenza confessionale del suo abito. È un uomo tuttora legatissimo a Padre Dall’Oglio, rapito a Raqqa nel 2013 (e mai liberato).
Padre Jens è infatti cresciuto spiritualmente nella comunità monastica di Dall’Oglio, “Mar Musa“. Un giorno però, decise di affrancarsi dal suo maestro e fondare tra le montagne del Kurdistan una sua comunità, “Deir Maryam” il nome prescelto. Il suo lavoro continua con coraggio la tradizione di accoglienza, attivismo e dialogo col mondo musulmano, seguendo l’eredità spirituale del suo mentore. Tra il 2014 e il 2017, mentre il sedicente Califfato mostrava più forte tutto il suo terrore, Padre Jens aprì materialmente le porte della sua chiesa ai profughi iracheni e siriani in fuga da Daesh. Una foto nel suo studio lo racconta ancora oggi: la chiesa del suo monastero venne riadattata ad accampamento per le persone bisognose. Ancora oggi ‘Abuna’ (“nostro padre”, così lo chiamano i suoi ospiti) accoglie coloro che ne hanno bisogno. Nel momento peggiore della crisi siriana (200 persone circa ospitate, tra cui 60 minori) organizzò una scuola per bambini/e, con corsi di curdo, di arabo, di inglese, corsi che ancora vanno avanti. Oggi in una piccola palestra sotto il monastero si fanno corsi di teatro e di kick boxing per ragazze. Il monastero è davvero un’oasi di pace e spiritualità, un luogo speciale dove portare avanti le attività dell’assemblea. Abbiamo deciso di passare una giornata con lui perché a prescindere dalla fede personale di ognuno/a, crediamo profondamente nel suo operato di pace e umana solidarietà.

Halabja, 34 anni dopo.

L’ultimo giorno di assemblea ICSSI è stato invece itinerante. Il 16 marzo ci siamo recati/e ad Halabja, la cittadina curda di confine tristemente nota per uno dei più grandi attacchi chimici della storia. Il 16 marzo scorso è stato il 34° anniversario di quel massacro, un crimine contro l’umanità in cui persero la vita circa 5000 civili in un solo giorno. Molte di più le persone che poi svilupparono malattie degenerative, congenite e disabilità.
Halabja si trova al confine con l’Iran. Era il 14 marzo del 1988 – la guerra tra Iran e Iraq era agli sgoccioli – quando venne occupata dall’esercito iraniano. Due giorni dopo la repressione decisa da Saddam Hussein fu tremenda: sulla città vennero lanciate bombe cariche di gas iprite. “L’odore di quei gas ricordava il profumo delle mele” – raccontano i superstiti – “per questo le persone non si coprirono immediatamente il naso e la bocca, ma anzi respirarono i gas a pieni polmoni”. Poco dopo, come raccontano le terrificanti immagini dell’epoca, una distesa immensa di corpi umani crollò a terra, esanime, ricoprendo l’intera cittadina di Halabja. Il monumento del ricordo di quella tragedia è un luogo struggente: al suo interno ci sono foto, nomi, testimonianze, documenti ufficiali che ricostruiscono i fatti. Nel cimitero della cittadina sono presenti diverse enormi fosse comuni. È veramente dura. Ci chiediamo come sia stato possibile tutto ciò, come l’umanità possa essere arrivata a tanto. Difficile trovare una risposta. Conoscere questa storia è importantissimo perché un simile errore non si ripeta mai più. Ma se il passato non si può cancellare, ad Halabja si guarda anche al presente e al futuro: abbiamo conosciuto un’organizzazione di donne curde, che lotta ogni giorno con coraggio per difendere i propri diritti e proteggere l’ambiente, la natura che nonostante l’orrore ha saputo resistere. Da pochi mesi queste donne hanno aperto un’officina in cui si ricicla la plastica, attraverso raccolta sul territorio e trasformazione in materiali scolastici. Allo stesso tempo conducono progetti di riciclo innovativo e laboratori di educazione ambientale nelle scuole. Vogliono che Halabja, conosciuta al mondo per l’atrocità che abbiamo raccontato, diventi una città verde, una green city a 0 impatto ambientale, un esempio vivente di ciò che il cambiamento può essere.
Una visione meravigliosa che sosteniamo e speriamo anzi di vedere presto realizzata in tutta la sua potenza.

Lasciamo Halabja con le parole di Sahar, femminista irachena di 27 anni, che ringraziamo perché ha trovato il coraggio di mettersi a nudo con questo pensiero prezioso:

“Parliamo quindi di Halabja.

Una breve lezione di storia da parte mia, Sahar, supportata da wikipedia perché Dio non voglia che i libri di storia iracheni ne parlino.

Vedete, posso dirvi i nomi di ogni generale europeo che ha fatto parte della seconda guerra mondiale, ma non conosco la vera storia irachena, no signore, non qui!

[…] cosa significa oggi vivere con una persona che una volta era il tuo nemico?

Sono un’irachena di 27 anni, nata e cresciuta a Baghdad e questa è la prima volta che visito la città dove nel 1988 è stato commesso un crimine contro l’umanità.

Ho pianto e mi sono vergognata di conoscere così poco di questo luogo, non solo, ho passato la maggior parte di questi anni senza pensare a ciò che era successo lì. Lo stavo evitando.

Mi odio per essere una persona che ignora la storia della sua stessa gente, la mia gente, il mio popolo. […] La gente che vive ad Halabja è anche la mia gente.

Dovrei camminare ogni 16 marzo per strada urlando a squarciagola “cosa abbiamo fatto per ricordare Halabja? Perché ci comportiamo ancora come se non fosse mai successo!”

Anche il silenzio è un crimine. E non tutti gli assassini hanno in mano un coltello.

Si possono uccidere migliaia di persone semplicemente stando in disparte “oh questa non è la mia lotta, questa non è la mia guerra”.

Piangere non risolverà il problema Sahar, ma allora cosa?”

 

Dopo una settimana di incontri e assemblee finisce la nostra esperienza a Sulaymaniyah. Torniamo a casa con la convinzione che le sorelle e i fratelli iracheni non si arrenderanno. Speriamo di tornare presto a incontrarci perché, per dirlo alla maniera di Gramsci, che poi è la stessa di Sahar – “l’indifferenza è il peso morto della storia”. E di morti, in questa particolare storia, ce ne son state fin troppe.