A 40 anni da Sabra e Shatila nessuna giustizia

16 September 2022, 12:27

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Beirut. Il 16 settembre di 40 anni fa, gli uomini di Bashir Gemayel, supportati dall’esercito israeliano, entrarono armati nel campo profughi palestinese di Sabra e Shatila. Quello che successe nei due giorni seguenti è rimasto drammaticamente nella storia. Quest’intervista ripercorre come una comunità dilaniata dal dolore abbia saputo rialzarsi e continuare a vivere, senza aver mai ottenuto giustizia.

di Rima Krayim e Edoardo Cuccagna

Gemayel era il leader delle Falangi e nuovo Presidente di un Libano lacerato dalla guerra civile. Aveva perso la vita soltanto due giorni prima in un attentato, probabilmente di matrice siriana. I fedayn palestinesi di Arafat avevano già lasciato il paese, adempiendo ad un accordo siglato sotto l’egida delle Nazioni Unite. Gli accordi invece non furono rispettati da Ariel Sharon, potente Ministro degli Interni israeliano, che con le sue truppe invase Beirut ovest. Neanche le forze internazionali di interposizione (tra cui centinaia di soldati italiani) rispettarono i patti, abbandonando il paese prima del previsto.

I Falangisti restarono nel campo quasi due giorni, mentre i soldati israeliani rimasero a presidio degli ingressi affinché nessuno potesse fuggire, permettendo di fatto che l’eccidio fosse compiuto. Quello che era successo nel campo «Ce lo dissero le mosche. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore» – raccontò nel suo reportage il giornalista inglese Robert Fisk. Un enorme campo minato di corpi giaceva a terra senza vita per tutto il chilometro quadrato di superficie del campo di Shatila. Alla fine di un massacro durato due giorni, si stimerà che le vittime siano state oltre 3.000, tra uomini, donne, anziani, bambini, barbaramente uccisi/e. Un genocidio le cui vittime non hanno ancora ricevuto giustizia e per cui nessuno ha pagato mai.

A 40 anni dal massacro di Sabra e Shatila, abbiamo intervisato Mr.Kassem, fondatore e presidente di Beit Atfal Assomoud, una storica organizzazione palestinese nata per sostenere gli orfani e le orfane dei campi. Come Un Ponte Per supportiamo Assomoud dal 1997 con i sostegni a distanza e il programma Family Happiness, grazie al quale fino ad oggi siamo riuscite/i a garantire ai/lle bambini/e  educazione, assistenza medica, supporto psico-sociale. Nel frattempo i campi profughi sono ancora lì e continuano le enormi privazioni a cui sono costretti/e i/le palestinesi.

Mr. Kassem, cosa ricorda di quei giorni bui?
Quando ci fu il massacro mi trovavo in Francia. Ricordo che contattai un mio amico membro del consiglio di amministrazione di Beirut. Gli chiesi di iniziare a soccorrere subito i figli e le figlie dei/lle martiri che avevano perso la vita. Un fotografo giapponese ci offrì un grande aiuto con la stampa. Riuscimmo così a dar vita rapidamente al primo progetto per bambini/e, si chiamava “Isaad Al-Osra”.

A 40 anni dagli eventi, come è cambiata la comunità palestinese in Libano?
Prima del 1982 la nostra gente aveva grande orgoglio e senso di appartenenza. C’era una grande solidarietà diffusa e un forte senso di comunità. Le persone si conoscevano bene e si prendevano cura le une delle altre. Il campo era la casa di tutti/e noi. Con il massacro e la guerra dei campi è scomparso tutto ciò. Il campo di Shatila ha perso identità, cultura, ha perso il suo sentire comune. Il cambiamento nelle relazioni è avvenuto in senso peggiorativo. Cerchiamo con il nostro lavoro di ricostruire coesione sociale, senza la quale è davvero complesso affrontare i problemi quotidiani.

Assomoud è nata nel 1976, dopo un altro massacro, quello di Tal Al Za’atar. Come si è evoluta l’attività dell’organizzazione da allora?
Volevamo dare una risposta civile e umanitaria al massacro di Tal Al-Za’atar, costruire degli spazi sicuri e dei luoghi dove gli/le orfani/ei del massacro potessero sentirsi protetti. All’inizio i/le bambini/e con noi erano circa 180. Nel 1982, dopo il massacro di Sabra e Chatila, abbiamo iniziato a sostenere bambini/e con l’obiettivo di lasciarli con i parenti se possibile, piuttosto che vivere negli orfanotrofi. Per rispondere alla guerra che continuava in Libano, avviammo tante nuove attività per supportare bambini/e, non solo nei bisogni essenziali, ma anche a livello di salute mentale e gestione del trauma.

Costruimmo il nostro primo centro proprio nel campo di Shatila, ed è ancora considerato un piccolo esempio per gli altri centri. Oggi il centro ospita anche un ambulatorio dentistico e un asilo per bambini/e dai 3 ai 6 anni. Negli anni purtroppo sono aumentati i casi di abbandono scolastico, così abbiamo cominciato i corsi di recupero e il supporto educativo. Poi sono cominciati i corsi di Dabke (la danza tradizionale palestinese), di cucito e di cultura palestinese, al fine di salvaguardare la nostra identità e sostenere le famiglie.


Quant’è importante l’istruzione per chi cresce nei campi?
Israele ha occupato le nostre terre ma non può avere il controllo delle nostre menti, perciò l’istruzione è una priorità per i/le palestinesi. Vogliamo offrire ai/lle giovani le migliori opportunità di apprendimento, perché è la cultura la nostra unica arma. La vita nei campi scorre difficile, le privazioni sono tante e le leggi libanesi non aiutano: ancora oggi non ci è permesso avere proprietà immobiliari e svolgere alcuni mestieri. La frustrazione è tanta e il supporto psicologico specialistico che diamo alla popolazione è fondamentale. Non ci sono alternative rispetto a quello che offriamo, specie a livello di scuola materna, servizi psicologici e assistenza dentistica.

Alcuni bambini/e studiano all’Unrwa e c’è una piccola percentuale tra loro che studia nelle scuole pubbliche, dove non c’è posto neanche per i/le bambini/e libanesi. In questo senso sì, i nostri servizi sono essenziali. Purtroppo in Libano più dell’ 80% dell’istruzione è privata.
Avremmo bisogno di borse di studio per scuole e università, e di formazioni professionali affinché i/le ragazzi/e possano imparare un mestiere.

Un Ponte Per sostiene Assomoud da molti anni con progetti comuni e sostegni a distanza, ha un ricordo particolare che la lega a noi?
Conobbi Fabio (Fabio Alberti, fondatore di UPP, ndr) di Un Ponte Per negli anni ‘90, proveniva da Baghdad e venne a trovarci in Libano. Ci siamo capiti subito e cominciammo a lavorare insieme: il programma fu chiamato “Jeser Ela… Baghdad, Jeser Ela… Shatila”, Un Ponte Per… Baghdad, Un Ponte Per…Shatila. Da allora prosegue il nostro legame di amicizia e cooperazione, e speriamo vada avanti anche in futuro.

40 anni dopo il massacro, in Libano è in atto una profonda crisi economica, la pandemia, le tensioni politiche. Come influenzano questi fattori la causa palestinese e il diritto al ritorno in Palestina?
Più soffriamo, più continuiamo a sostenere il diritto al ritorno. La crisi economica, le tensioni religiose e politiche hanno ovviamente colpito tutti/e noi, oltre al terribile aumento dei prezzi e alle continue interruzioni di corrente elettrica. La situazione è ulteriormente peggiorata con il Covid 19 ma nonostante tutto ciò non rinunceremo mai al nostro diritto al ritorno.
Conserviamo ancora le fotografie e le chiavi delle nostre vecchie case in Palestina.

A 40 anni di distanza, come Un Ponte Per continuiamo a chiedere giustizia per la memoria delle persone uccise e per coloro che sono sopravvissute. Nessuno ha ancora pagato per il crimine di Sabra e Shatila, nessuno ha risarcito i/le palestinesi o ha chiesto scusa per quello che è stato un vero e proprio atto di genocidio.
Dedichiamo il nostro cordoglio più sincero ai fratelli e alle sorelle palestinesi che 40 anni fa furono brutalmente uccisi/e, ai loro familiari, ai loro amici, le loro amiche e a tutto il popolo palestinese che da più di 70 anni subisce ingiustizie indicibili.
Con dolore, tristezza, ma anche con tanta dignità.