Le donne di Ninive

13 Giugno 2017, 14:21

Il racconto di una giornata nelle cliniche e sulla mobile unit di “Zhyan“, il nostro progetto per la tutela della salute riproduttiva delle donne sfollate irachene, siriane e curde in Iraq, sostenuto da AICS-Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, con il contributo dell’Otto per Mille della Chiesa Valdese, della Provincia di Bolzano, di CCFD-Terre Solidaire e donatori privati.

 




 

Huda sistema la gonna lunga sui fianchi, si guarda allo specchio e aggiusta il suo hijab. E’ mattina presto e il telefono suona già da un po’. E’ Miro, l’infermiera. Oggi hanno circa 20 appuntamenti e il consultorio si sta riempiendo. “Dottoressa, le manca molto?”. Huda corre verso la macchina e il telefono squilla di nuovo, stavolta è sua madre. La rassicura, a casa stanno tutti bene, sembra proprio che tra qualche giorno potranno rivedersi. Sono passati più di 2 anni dall’ultima volta, dal giorno in cui il quartiere di Mosul dove vive, nella Piana di Ninive, è finito sotto il controllo di Daesh. Da quel giorno non si sono più viste. “Al-Hamdolillah, grazie al cielo, state tutti bene. Mamma, adesso potete lasciare la casa. Io non posso venire a prendervi in città, è ancora troppo pericoloso. Vi aspetto qui, insieme ad Ayad e alle bambine. Fate presto, non vedo l’ora di rivedervi”. Mentre spinge l’acceleratore pensa alla strada che collega Erbil a Mosul e a quante volte l’ha percorsa su quell’autobus sgangherato quando era studentessa alla Facoltà di Medicina. Ripensa a quelle aule grandi, alle lezioni, alla fatica di studiare tutti quei libri. Ripensa ai sogni cresciuti in quei corridoi di una giovane ragazza irachena che vuole diventare una brava ginecologa. Sembra passata una vita, anche se in realtà sono meno di 20 anni e quell’Università ora non esiste più, è distrutta, ha visto le foto su un giornale ieri. Dovranno ricostruire anche quella, e devono sbrigarsi perché sua figlia tra poco avrà 18 anni e vuole studiare Farmacia nelle stesse aule in cui ha studiato sua madre.

In clinica le donne sono già in fila, Miro è indaffarata a preparare i moduli da compilare. Huda chiama la prima paziente, Dana, una ragazza che arriva dalla Siria, anche lei giovane donna tra le migliaia di rifugiate e sfollate che negli ultmi anni, da quando i conflitti si sono riaccesi, hanno trovato rifugio nel Kurdistan iracheno. Terre violate da guerre e barbarie che vanno avanti da decenni. Qui le donne imparano a vivere la guerra ancora prima di nascere. Ci devi fare i conti, come donna, madre, figlia, moglie, vedova. In un paese in conflitto sono loro a pagare il prezzo più alto. Anche per questo Huda, con le altre dottoresse, le infermiere e le psicologhe, ha scelto di lavorare al fianco di organizzazioni umanitarie come la nostra, che da anni è impegnata in progetti a sostegno della salute e dei diritti delle donne. Come il progetto “Zhyan”, in curdo “vita”, che da oltre 2 anni è vicino alle donne sfollate irachene, alle rifugiate siriane e alle curde garantendo servizi di salute riproduttiva, supporto psico-sociale e attività di sensibilizzazione sui temi della violenza di genere. Dana ha appena 18 anni ed aspetta il suo primo bambino. E’ alla sua terza visita da quando è rimasta incinta. Durante l’ecografia  questa volta si riesce a vedere qualcosa di più: è un maschietto che si agita nella pancia e Dana, quando vede quelle ombre muoversi dentro di sé, non riesce a trannere le lacrime. E Huda le sorride, felice di aver visto la vita ballare anche stamattina.

Nelle cliniche di “Zhyan” è cosi, si piange e si ride tutti i giorni. Huda, Thuka, Aya, Iman, Miro, Faiza, Rawnaq, Raghda, Danyal e Karama, le dottoresse e le infermiere del progetto, lo sanno bene. Ogni giorno più di 30 donne attraversano i 4 consultori che abbiamo costruito, e Huda sa di essere, oltre ad una ginecologa, anche un punto di riferimento per loro,  che non restano mai solo pazienti. A volte diventano amiche, sorelle, confidenti. Perché sono storie che si intrecciano quelle delle donne di “Zhyan”. Storie di dolori, violenze, soprusi, mancanze. In guerra, a casa, all’Università, sul posto di lavoro. Hana, che viene picchiata tutti i giorni da un marito che ha perso il lavoro, e non sa come portare i soldi a casa; Shayan, che ha vinto una borsa di studio per la Turchia e non partirà, perché suo padre non la lascia viaggiare sola; Nur, che ha sposato Hisham a 16 anni perché la famiglia credeva che con il matrimonio sarebbe stata protetta; Alya, che ha visto suo fratello cadere sotto i colpi di fucile a Falluja; Rima, che combatte contro la depressione per aver perso il suo bambino di poche settimane mentre fuggiva da Mosul, e ora vive in una tenda fredda nel campo sfollati. Storie di guerra, occupazione, barriere culturali.

Storie che si intrecciano con quelle di Amal, che grazie al supporto legale dei Centri per la Protezione della donna con cui collabora il nostro progetto ha vinto la sua battaglia contro un compagno alcolizzato; e di Samar, che dopo aver frequentato i corsi di formazione di taglio e cucito ha trovato lavoro in una sartoria; e di Balqis, che ha smesso di prendere quelle brutte medicine che la facevano dormire per ore da quando ha intrapreso un percorso di supporto psicologico di gruppo dove, ritrovandosi negli occhi delle altre donne, ha recuperato la forza di tornare a sorridere alla vita. E’ questa la bellezza del lavorare con le donne e per le donne, in Iraq e in mille altri luoghi. Sono mani mai ferme, sempre a cercare, curare, operare, plasmare. Mani nude, a volte lisce come la buccia di una pesca, a volte ruvide, scavate dai segni del tempo e della fatica di vivere. Sono grandi sogni. I sogni di Huda, dottoressa irachena, sfollata anche lei tra le sfollate. I sogni di Maysoun, giovanissima madre siriana rifugiata che immagina il giorno in cui potrà tornare a casa. E sono anche i miei sogni, di cooperante italiana che insieme a queste donne ogni giorno cerca di costruire un dialogo che leghi esperienze, necessità, ambizioni. E quelle battaglie che ci uniscono tutte. E’ quello che fa Huda ogni mattina, fiera e un tantino disobbediente rispetto a come la vorrebbe la guerra. Libera come le donne di Ninive e del mondo, che insieme hanno sempre portato amore. Perché ogni luogo è migliore quando una donna è libera di essere la donna che sceglie di essere.

di Marta Malaspina, Un ponte per…