A Raqqa, dove la guerra non è ancora finita

29 Settembre 2017, 14:12

Intervista al Dottor P., medico internazionale del nostro staff impegnato nel programma emergenziale di assistenza sanitaria 

“La cosa che mi ha colpito di più? Vedere i bambini giocare alle porte di Raqqa. A volte dimentichiamo che la guerra non è solo bombe e battaglie. E’ anche non avere più nulla per cui sorridere”.

Il dottor P. è un medico che alle situazioni di emergenza è abituato. Palestina, Haiti, emergenza ebola in Sierra Leone. Ma in Siria è arrivato per la prima volta due mesi fa, come esperto e formatore, per prendere parte al programma di assistenza sanitaria che Un ponte per… ha lanciato nel nord del paese per sostenere i Centri medici della Mezzaluna Rossa Curda.

“Credevo di trovare una situazione disastrosa. I medici locali con cui lavoriamo invece hanno una grandissima esperienza di interventi di guerra. A volte manca loro solo un po’ di organizzazione. Ecco perché abbiamo cercato di aiutarli a migliorare il funzionamento delle cliniche e parallelamente di fornire loro le cose di cui avevano più bisogno. Ma lavorando fianco a fianco, senza mai prenderne il posto”, racconta il Dottor P., senza nascondere la stanchezza, ma anche l’orgoglio di aver operato laddove davvero c’era bisogno.

Due mesi di lavoro “sono stati come il doppio: ci troviamo ad appena 2 chilometri dalla battaglia di Raqqa, e con una frontline che in continuo spostamento”.

Il sistema di ambulanze che siamo riusciti a creare grazie a finanziamenti europei rende il team di medici locali e internazionali in grado di entrare ed uscire da Raqqa continuamente, recuperando i civili feriti e portandoli nei due Centri di stabilizzazione che abbiamo costruito a pochi chilometri di distanza, per fornire le prime cure d’emergenza.

“I feriti poi vengono trasferiti negli ospedali più vicini. La cosa più dolorosa che ho visto in questi mesi? Quando ne abbiamo persi alcuni perché gli ospedali non hanno medicinali, attrezzature o risorse necessarie. A volte c’è una sola infermiera per un intero reparto”, spiega il dottore.

La guerra, poi, non significa solo battaglia. Ma anche migliaia di persone in fuga, che devono trovare un luogo sicuro in cui mettere al riparo bambini, anziani, intere famiglie.

“Insieme ai nostri colleghi siriani e abbiamo messo in piedi il campo di accoglienza di Areesha in due giorni. Dopo altri due c’era la clinica, che stiamo sviluppando giorno dopo giorno. C’era bisogno di noi esattamente in quel momento e in quel posto: ci siamo andati, senza porci troppe domande. Qualcuno potrebbe considerarci folli: io invece sono fiero di non essere rimasto a distanza, ma di aver operato sul campo, insieme alle persone”.

Il primo giorno dopo l’apertura della clinica, sono arrivate 1.600 persone in fuga dalla battaglia di Deir el Zor. Il giorno seguente erano già il doppio. “Non so se siamo stati in grado di aiutarli – racconta il Dottor P. –  credo bastasse loro sapere di non essere soli. E poi abbiamo messo su una sala parto dove sono nati più di 100 bambini in poche settimane”.

E mentre la battaglia per strappare Raqqa al controllo di Daesh si appresta a finire –  secondo le stime occorreranno ancora tra le 4 e le 6 settimane – il Dottor P. già si chiede cosa accadrà dopo. “Finirà questo scontro, ma non la guerra. Entreremo semplicemente in un’altra fase: quella della ricostruzione necessaria delle macerie che ha lasciato. Case, villaggi, ospedali da rimettere in piedi. Migliaia di persone che vorranno fare ritorno in aree completamente minate. I traumi dei bambini da curare, le famiglie nei campi profughi da assistere, perché manca tutto. La guerra è anche questo”.

Sorride, il Dottor P., ed è felice di poter tornare a casa per riposare un po’. “Ad ottobre sarò di nuovo insieme ai miei colleghi, sul campo. Stiamo già iniziando a rimettere in piedi gli ospedali che sono stati distrutti o usati come basi dai miliziani, cominciando dai reparti di maternità. La cosa che mi ha emozionato di più è stato arrivare alle porte di Raqqa e vedere i bambini sorridere e giocare. Un’immagine di vita anche in mezzo alla guerra. Racconta che abbiamo ancora speranza”.

 

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