Dovevamo esserci

24 Aprile 2018, 13:09

Macerata, febbraio 2018. presidio spontaneo nei giardini Diaz di Macerata dopo l’atto terroristico di Luca Traini, qui è stata lanciata la grande manifestazione nazionale di sabato 10 febbraio. Di Michele Massetani/Csa Sisma

“Tutto il bene avevamo nel cuore
Tutto il male avevamo di fronte”
(Italo Calvino)

Dovevamo esserci alla manifestazione di Macerata del febbraio scorso.

Dovevamo esserci al fianco delle manifestazioni di “Non Una di Meno”.

Dovevamo esserci a difendere il diritto di muoversi su questo globo, alla ricerca della felicità e della dignità, e a difendere chi, sul dispiegarsi di quel movimento, protegge la vita.

Dovevamo esserci a respingere, ad affossare con i nostri numeri la vulgata della destra identitaria e nostalgica.

Dovevamo esserci per denunciare l’illegittima, illecita ed intollerabile eco di un passato che credevamo sconfitto e sotterrato, quantomeno dai corpi di coloro che ci hanno difeso, delle donne che ci hanno ridato la voce ed il corpo, dei civili e delle civili che ci hanno conquistato la Costituzione, i suoi dettami, i suoi principi.

Dovevamo esserci anche di più, perché nel nostro sgomento le istituzioni non c’erano. Quelle stesse che traggono radice e nutrimento da questa storia e da questa Carta Costituzionale che la consacra, non c’erano, o meglio, erano contro.

Dovevamo resistere, come azione attiva di resistenza giuridica, in nome della giustizia vilipesa, contro il degrado dell’etica pubblica, contro la defraudazione della democrazia, di cui il nuovo fascista, con il razzista ed il machista dovrebbe poter godere, dopo averci chiesto il sangue per ottenerla, per solo continuare ad offenderla con i suoi stessi pensieri.

Resistere, opporsi, disobbedire secondo i dettami (e dunque nel solco dei poteri-doveri) della Costituzione antifascista che ci hanno conquistato, come prima forma di estrinsecazione della sovranità del popolo, all’incipit di ogni altro diritto e principio che essa, bellissima ed eterna nella validità e nella necessità, ci riconosce (da sempre, per sempre).

Un diritto individuale e collettivo allo stesso tempo, perché qui l’azione legittima del singolo insegue una traiettoria di bene comune, che se non è comune, non può essere bene.

Resistere qui, e a maggior ragione considerata la storia dell’ultimo ventennio, è conservare. Conservare quella Carta che esprime tutto il nostro vissuto di dolore e risveglio, di trazione e di coscienza, e sintetizza l’esperienza sociale nel rifiuto categorico di ogni guerra ché, per dirla alla Pavese “ogni guerra è una guerra civile”.

Dovevamo esserci a gettare ponti sul futuro, quello ideale, del nuovo disegno sociale che i nuovi femminismi stanno disegnando per tutti e per tutte. Lì è dove creiamo un mondo nuovo, smontando i meccanismi e attuando una protezione comune, un mondo costruito per chiunque. Un mondo che non appiattisca le differenze inseguendo il vetusto concetto di “uguaglianza” ma piuttosto concretizzi il nuovo patto sociale, fondandolo sul concetto di “equità” e di coesistenza di straordinarie differenze.

Donne e uomini hanno lottato insieme, nella lunga storia delle lotte di emancipazione, anche nella Resistenza. Eppure, non sperimentano la stessa strada (tantomeno la stessa attesa) verso la libertà. Nella stessa rivoluzione francese, gli uomini declamavano tanto i diritti da acquisire, rivendicandoli solo per sé stessi.

Non si tratta di trovare una risposta che livelli e rassereni. Questi sono tempi di trasformazione profonda. Qui resistere significa disobbedire allo status quo, creare un pensiero nuovo (sebbene in continuità con quello concepito nella nostra Carta Costituzionale). Uno spazio in cui coesistono e si intrecciano parlandosi nature ed esigenze differenti, non riconducibili all’unità. E gli animali con i loro e la Terra depredata con il suo. Insomma, uno spazio per la vita, dove omnia sunt communia.

Cosa unisce questi due punti apparentemente lontani della linea, resistere per conservare e resistere per trasformare?

Come facciamo a pensare un femminismo che non ripieghi sulla vecchia contrapposizione delle parti, dove ottenere per sé è sottrarre all’altro/a?

Come facciamo a pensare un’immigrazione che non contempli (anche solo fra i fattori in gioco) lo scontro con l’autoctono/a?

Oppure, meglio… perché queste parti di un tutto, queste componenti (sempre ricomponibili altrimenti), una volta identificate ci sembrano sempre condurre ad una logica di comparazione, di confronto, di conflitto, di separazione?

I movimenti femministi bene identificano ed analizzano la violenza che domina la scena globale ed individuale. La violenza degli uomini sulle donne. Che è anche la violenza del potere finanziario sulle persone e sul loro lavoro; degli Stati, gli uni contro gli altri. Degli autoctoni e delle autoctone contro chi arriva e sembra spingere.

E’ la violenza del sistema economico neocapitalista, che ha approfittato dell’abbattimento della membrana tra la vita pubblica e quella privata nella trasformazione delle donne in soggetto “produttivo”, spostando il patriarcato e il razzismo ad altri livelli e rendendoli mainstreaming. Esistenze, organi, gestualità intime, pensieri, conoscenza e coscienza. Non ci sono più spazi a tenuta stagna. Il valore economico viene succhiato direttamente dalla nostra vita, con violenza immateriale e profonda. Senza lasciare giacenze né residui.

Scendere in piazza è stato tornare sovrani e sovrane, delle nostre vite, dello spazio pubblico e privato, della nostra Carta Costituzionale, del mandato alle nostre istituzioni (tutte), di noi stessi/e come soggetto altro e più alto/a del nostro valore economico.

Ed è stato un atto di amore e di difesa civile, di un assertivo no alla violenza di stampo patriarcale che tutti/e ci ha fatto soggiacere per lungo tempo.

Mentre eravamo piegati e piegate sotto questo ennesimo giogo, mostri terribili hanno ripreso la loro corsa, con nuove facce e modi vecchi, contando sulla nostra stanchezza, sfruttando le nostre conquiste.

Ma noi non siamo stanchi/e, stavamo solo riprendendo fiato per il nuovo slancio. Che vinceremo noi, capaci di grande ostinazione, fermezza e resilienza, non c’è dubbio. Si tratta di capire se il conflitto dovrà protrarsi con logiche di competizione (le loro) o invece risolversi in quelle di collaborazione (le nostre).

Questo dipende da loro, da quelli/e che non c’erano.

“La libertà è una sola: le catene imposte sulle spalle di uno di noi pesano sulle spalle di tutti”.
(Nelson Mandela)

 

Di Novella Mori, Direttrice di Un Ponte Per…
Tratto dalla rivista “Ponti non muri”, maggio 2018.

 

Nella foto: presidio spontaneo nei giardini Diaz di Macerata dopo l’atto terroristico di Luca Traini, qui è stata lanciata la grande manifestazione nazionale di sabato 10 febbraio. Di Michele Massetani/Csa Sisma.