In Iraq la ricostruzione dei giovani si chiama giustizia sociale

21 Febbraio 2019, 11:36

Iraqi Civil Society Initiative. Attivisti, musicisti, studenti e società civile si incontrano a Baghdad e dalle macerie tirano su ponti. Le loro storie.

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«Che immagini troviamo, cercando su internet le città di Mosul, Falluja, Ramadi, Tikrit?». Palazzi sventrati, uomini armati, distruzione. «Ecco cosa facciamo noi, invece».

Ragazzi e ragazze in abiti sportivi, sorridenti, che si riappropriano di spazi a lungo occupati da eserciti, milizie, uomini armati di kalashnikov. Siamo a Baghdad, nell’ampia sala del Circolo della Società degli ingegneri iracheni. Con fare disinvolto, Ahmed Al-Baghdadi mostra sullo schermo la distanza tra ciò che c’era prima e quel che c’è ora, tra stereotipi e realtà. Illustra le attività di Sports Against Violence Iraq, «iniziative che creano ponti culturali, legami sociali, coesione attraverso lo sport».

Ahmed è uno degli attivisti dell’Iraqi Civil Society Initiative (Icssi). Nata in Italia nel 2009 grazie a una rete di ong internazionali e irachene, movimenti sociali e sindacati, dal 31 gennaio al 3 febbraio l’Icssi ha organizzato a Baghdad una conferenza di quattro giorni per fare il punto sui traguardi raggiunti e sulla strada da fare.

«Un bilancio positivo: la società civile amplia i suoi spazi ed è più efficace di prima, ma gli attivisti continuano a rischiare», spiega al manifesto Martina Pignatti Morano, responsabile delle attività di peacebuilding di «Un ponte per…», l’associazione italiana impegnata da anni in Iraq, anche con i movimenti che lottano per una trasformazione sociale. Non-violenta.

«Non è una scelta semplicemente tecnica, ma il presupposto per costruire un’altra società», dice Ismaeel Dawood mentre si muove per Baghdad seguendo una mappa puntellata di ricordi personali. La città è molto cambiata. Negli ultimi mesi, anche in positivo. Meno violenza, attentati, insicurezza. La popolazione tira un sospiro di sollievo.

«Che la conferenza si tenga per la prima volta qui a Baghdad è importantissimo. Ecco il vero volto dell’Iraq!», scandisce forte Taif Alwachi, 28 anni appena compiuti e un sorriso contagioso. È anche la prima volta, dal 2003, «che arriva una delegazione così numerosa di stranieri, senza scorta armata», aggiunge Martina Pignatti Morano. Quasi duecento gli iracheni, 41 gli internazionali presenti in sala.

Iracheno di nascita e pisano di adozione, Ismaeel Dawood incarna il legame consolidato tra iracheni e non iracheni. Le pratiche migliori si precisano insieme. Insieme si cercano le strategie più efficaci. «Ma le soluzioni durature possono venire solo dall’interno», sostiene Florent Schaeffer di Ccfd-Terre solidarie, tra i partner dell’iniziativa. L’obiettivo è duplice: riparare i danni del conflitto, ricucire strappi e ferite. E nel farlo provare a costruire una società inclusiva. Votata alla giustizia sociale e fondata sui giovani.

Studenti, musicisti, ragazzi con i capelli impomatati e ragazze con o senza velo: hanno idee chiare ed energia da vendere i volontari e gli attivisti riuniti qui a Baghdad. «Sono un’avanguardia, un pezzo della società forse minoritaria, ma espressione autentica dell’energia che si respira in tutto il Paese», nota Domenico Chirico di «Un ponte per…».

Huda Jabbar si occupa di ecologia e tutela del patrimonio ambientale. Ali Al-Karkhi segue l’Iraqi Social Forum, Mustafa Jassim e Abdullah Khalel la macchina organizzativa. Come tanti altri coetanei, fanno politica con il sorriso. Entusiasmo da ventenni e maturità politica per discutere anche questioni delicate. Il rapporto con le istituzioni, l’equilibrio tra attivismo, volontariato e progetti da mandare avanti, le sfide della ricostruzione, le spinte centrifughe di un Paese molto diversificato.

«Qui ci sono comunità diverse per storia, religione, lingua. Dobbiamo re-imparare a convivere, ritrovare la coesione». Che viene meno quando non c’è uguaglianza. Quando le risorse, limitate, vengono depredate dai più forti. Anche quelle ambientali: «Senza un equo accesso alle risorse ambientali, non c’è giustizia», sostiene Salman Khairalla, prima che la musica che chiude la conferenza travolga tutti.

 

Farhan: «Fate spazio al popolo yazida»

«Meritiamo di vivere come tutti gli altri, siamo esseri umani anche noi». L’appello di Farhan Ibrahim è toccante. Attivista, rappresentante della Youth Bridge Organization, viene da Sinjar, a due passi dal confine con la Siria. Fa parte della comunità yazida, tra le minoranze che più hanno sofferto la violenza settaria dello Stato islamico. «In tanti non sono ancora tornati. Vorrebbero farlo, ma temono che tornino anche gli uomini di Daesh». Nonostante tutto, ha speranza: «Abbiamo aperto un centro giovanile, gli spazi per la società civile sono limitati, ma lottiamo per ampliarli. Serve la solidarietà internazionale».

 

Piana di Ninive, Alla abbatte muri

«Dobbiamo capire le ragioni del conflitto, i punti di divisione tra le comunità e nelle comunità. Capendo ciò che divide possiamo ricostruire la fiducia reciproca». Alla Refiq gestisce Bridging Communities, progetto di Un ponte per nella provincia di Ninive, nel nord-ovest, dove il conflitto ha distrutto città e villaggi, legami sociali, comunitari e istituzionali. È saltato tutto «e tutti hanno sofferto». La riconciliazione «è un processo lungo, ma i risultati iniziano ad arrivare». Il 2 giugno a Qaraqosh più di 70 rappresentanti delle comunità della piana di Ninive hanno firmato una dichiarazione per la coesistenza pacifica.

 

La poesia di Jameel per i figli di Daesh

«Di loro non si occupa nessuno. Sono lasciati a se stessi». Giornalista e attivista, scrittore e poeta, Jameel al-Jameel si prende cura dei familiari di membri dell’Isis. «Ci sono almeno 6mila famiglie nei campi profughi di Al-Salamiya e Hammam Al-Alil, non lontano da Mosul», spiega al manifesto. «Soprattutto donne e bambini. Se saranno marginalizzati, produrranno altro terrorismo». Una scelta controversa, in un Paese che ancora soffre per la violenza dello Stato islamico. «Mi criticano. Dicono che sono una vergogna per tutti i cristiani. Ma è proprio la religione che ci insegna il perdono».

 

Zhalian alza il volume: «Voce alle donne»

«Quando sei un’attivista, sei donna due volte. Come membro della comunità e come attivista, che si espone e rivendica diritti. Serve il doppio della forza». Zhalian Ahmeed fa parte del Kurdistan Social Forum inaugurato a Erbil nel 2017, lavora per la Al-Mesalla Organization for Human Resources Development ed è voce acclamata dell’ensemble musicale Mshakht. «Mancano leggi adeguate e c’è una mentalità patriarcale diffusa». La guerra ha aggravato la situazione: «Le donne sono state rapite, ridotte a schiave, violentate, umiliate. Serve sensibilità per curare i traumi. E che le donne parlino per sé».

 

Arte per la pace, Fatima fa comunità

«L’arte è uno strumento potente. Arriva a tutti, al di là delle provenienze. Noi la usiamo per trasmettere messaggi di pace», racconta Fatima al-Wardi, giovane coordinatrice dell’Arts of Peace Team dell’Iraqi Social Forum. Per Luca Chiavinato, musicista veneto, «la musica rompe le barriere culturali e crea nuovi legami, descrive la nostra identità, racconta la nostra storia». Da qui la decisione di dar vita a una serie di laboratori musicali in Iraq, nati anche grazie al sostegno dell’associazione YaBasta. Nel tempo, si è creata una vera e propria comunità di musicisti («ne contiamo circa 170 in tutto il Paese») ed è nata l’ensemble Mshakht.

 

A scuola (pubblica) con Wissam

«Se non parte dalla scuola, la ricostruzione sarà fragile». Per Wissam Ibrahim Anber, membro dell’ong Ufuq e dell’Iraqi Social Forum, l’istruzione è cruciale ma negletta. «Mancano edifici adeguati. Ci sono fino a 50/60 studenti per classe. La percentuale di abbandoni è molto alta. Gli insegnanti non vengono aggiornati. Mancano investimenti dello Stato: solo il 3% del bilancio è per l’istruzione». Il pericolo più recente, spiega, «è il tentativo di privatizzare gran parte del settore dell’educazione». Serve «che si comprenda il legame tra istruzione e cittadinanza, investimenti pubblici e qualità dell’insegnamento».

 

Sindacato al lavoro. E senza confini

«Dall’Iraq agli Stati uniti, un unico popolo, un’unica battaglia!». Docente emerito di Economia alla Stony Brook University di New York, Michael Zweig è tra gli animatori di U.S. Labor Against the War, una rete di sindacati e lavoratori nata nel 2003 negli Stati uniti contro le guerre in Iraq e Afghanistan. «Sono qui per rimediare agli errori dei nostri governi», racconta. Vicino a lui ci sono i sindacalisti iracheni Wesam Chaseb e Falal Alwan, già presidente della Federation of Workers Councils and Unions in Iraq (Fwcui). «Ovunque nel mondo i lavoratori sono sfruttati. La solidarietà internazionale è centrale». Per il più giovane attivista e ricercatore Mustafa Qusay, «nei sindacati si sconta la differenza generazionale e il governo non rispetta pienamente la libertà di associazione».

 

Acqua in comune per i popoli dei due fiumi

Salman Khairalla ha trent’anni e si occupa di giustizia ambientale. Fondatore insieme ad Ali Al-Karkhi di Humat Dijlah, una rete di osservatori e protettori del fiume Tigri, è coordinatore della campagna Save the Tigris and Marshes, promossa da una coalizione internazionale per proteggere il Tigri e le paludi mesopotamiche dallo sfruttamento intensivo, l’inquinamento, le dighe distruttive. Patrimonio vitale per le comunità, le risorse idriche sono anche una fonte di conflitto internazionale. Il rapporto con Iran, Siria e Turchia non è facile. Dal 5 al 7 aprile a Sulaymaniyah, nel Kurdistan iracheno, si terrà il Mesopotanian Water Forum: «Da fonte di conflitto, l’acqua può diventare una forza di cooperazione tra tutti i popoli dell’area del Tigri e dell’Eufrate», dicono gli organizzatori della conferenza

 

Di Giuliano Battiston
Tratto da Il Manifesto del 14.02.2019