Per la salute mentale, contro ogni stigmatizzazione

4 Marzo 2019, 16:39

“Ho imparato che è normale avere alti e bassi. Anche in quei momenti in cui tutto sembra nero, ed è impossibile trovare una luce. E’ stato sorprendente scoprire che anche altre persone vivono le stesse cose. Parlarne, fare i conti con queste sensazioni insieme ad altri, è confortante”.

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La guerra in Siria e le conseguenze dell’esodo di milioni di persone nei paesi confinanti ha ormai raggiunto il suo ottavo anno.

Otto anni di vita per persone che, da un giorno all’altro, si sono trovate a perdere tutto, ospitate in paesi che oggi devono fare i conti con un’accoglienza non sempre semplice da gestire, spesso presso comunità già gravate da problemi sociali ed economici.

E’ il caso della Giordania, dove secondo i dati forniti da UNHCR, ad oggi le persone siriane registrate sono quasi 700 mila. 

Tra le molte conseguenze della guerra, della fuga, dell’esposizione ad altissimi livelli di violenza,  ci sono le cicatrici invisibili: quelle che restano nella mente e nel cuore, e che provocano problemi psicologici, depressione, ansia.

Paura, preoccupazione, disperazione: oltre il 54% delle persone rifugiate in Siria racconta di provare questi sentimenti ormai da anni. Tra loro, tantissimi bambini e bambine.

E se le sfide e gli ostacoli a livello psicologico per le persone rifugiate dalla Siria sono uniche, e fortemente interconnesse con i traumi del conflitto e delle violenze subite, anche nel paese che le ha accolte la comunità giordana deve fare i conti con povertà diffusa, mancanza di lavoro, difficoltà ad avere accesso alle cure o ad un’istruzione di qualità.

Un paese, la Giordania, nel quale secondo i dati operano solo 2 medici psichiatri ogni 100.000 persone. Fornire un valido sostegno a chi ne ha bisogno, allora, diventa una sfida reale, resa ancora più complessa dallo stigma sociale che circonda le persone con difficoltà psicologiche.

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E’ in questo quadro che abbiamo pensato fosse necessario per chi con queste comunità lavora tutti i giorni, capire in che modo confrontarsi con queste difficoltà, ma soprattutto imparare a riconoscere i segnali di disagio, ansia, depressione manifestati a volte in modo silenzioso da donne, uomini, bambini.

Come aiutarli/e? E’ stata questa la domanda che ci siamo fatti/e quando abbiamo immaginato il nostro intervento Strengthening the mental health system, improve access and services for Syrian refugees and vulnerable Jordanian population”, supportato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS) e dalla World Health Organization (WHO), reso possibile grazie ad una rete di organizzazioni locali che da anni lavorano ogni giorno nel proprio paese, e che ci hanno accompagnati per comprenderlo meglio.

Il nostro obiettivo è stato quello di promuovere la consapevolezza rispetto ai temi della salute mentale, prestando particolare cura a giovani uomini e donne, appartenenti tanto alla comunità giordana ospitante che a quella siriana.

Volevamo tentare di colmare il vuoto di conoscenza intorno ai temi della salute mentale, infrangere i tabù, imparando insieme alle persone delle due comunità a riconoscere e identificare i sintomi di problemi e disagi, indirizzandole verso medici specialisti, informandole sui trattamenti possibili, e soprattutto combattere lo stigma sociale a tutti i livelli della società, contro ogni forma di discriminazione e di marginalizzazione.

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Qui, se una persona ha bisogno di essere assistita per un problema psicologico, si pensa subito che sia pazza”, racconta Mohammad, una delle persone che ha partecipato ai nostri incontri. “E’ necessario creare spazi di conversazione tra i giovani e le generazioni più anziane sulle questioni di salute mentale, perché problemi di depressione o ansia possono capitare a tutti, e non dovrebbero mai essere considerati dei tabù”.

Amman, Zarqa, Irbid, Karak: ci siamo mossi in queste aree, che hanno accolto il più alto numero di persone rifugiate siriane del paese, individuando le comunità più marginalizzate e vulnerabili e scegliendo di lavorare a fianco a loro. In un anno, siamo riusciti/e a incontrarne e supportarne più di 1.500.

Proiezioni di film, programmi radio, campagne di sensibilizzazione, incontri con i/le giovani, formazione di insegnanti: sono state queste le attività organizzate che, combinate insieme, hanno dato ottimi risultati.

Tantissimi gli incontri con le comunità, in cui abbiamo parlato di disagi e problemi psicologici, di come affrontarli senza timore di essere marginalizzati, di come imparare a riconoscere segni e sintomi di qualcosa che non va.

Abbiamo parlato di diritti, soluzioni, trattamenti possibili.  Ma l’obiettivo principale era rendere la nostra presenza non necessaria in futuro: per questo, abbiamo organizzato delle formazioni “peer-to-peer” con ragazze e ragazzi siriani e giordani, per assicurarci che potessero diventare punti di riferimento per le loro comunità, continuando a combattere pregiudizi e stigmatizzazioni delle persone con problemi psicologici, rendendoli capaci di riconoscere sintomi di disagio intorno a loro.

E’ importante per me sapere di poter aiutare amici che potrebbero avere a che fare con problemi di depressione”, ci ha raccontato una delle ragazze coinvolte nei training. “Prima non sapevo come fare, adesso so che a volte hanno semplicemente bisogno di qualcuno con cui parlare, o di qualcuno che sappia indirizzarli verso un aiuto psicologico professionale”.

E con lo stesso obiettivo abbiamo organizzato formazioni per 20 educatori ed insegnanti, che potranno portare queste nuove competenze acquisite nel loro lavoro quotidiano.

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Essere in grado di sostenere tutti i miei studenti allo stesso modo è sempre stata una mia priorità come insegnante”, ci ha raccontato una delle formatrici coinvolte. “Farlo qui, nel distretto di Kufr Assad (Irbid) non è sempre facile, perché la maggior parte dei bambini vive condizioni familiari molto difficili a causa dello sfollamento e della povertà. Dopo questo training, mi sento più capace di gestire la situazione, e di incoraggiare un modello inclusivo di educazione, soprattutto per chi ne ha un disperato bisogno”.

Portare avanti questo lavoro è stato possibile solo grazie alla collaborazione con le organizzazioni locali che operano con le comunità, dal basso, ogni giorno. Tra loro Our Step, con cui lavoriamo ormai da anni; il Jordan Hashemite Fund for Development (JUHOD), UNHCR, HelpAge e la radio Farah al-Nas, che ha ospitato i nostri programmi informativi.

E’ questo che assicura per il futuro la sostenibilità di un lavoro che abbiamo solo avviato, su cui continueremo ad impegnarci con tutto il nostro staff locale anche nei prossimi interventi.