Libia, altro che posto sicuro

8 Aprile 2019, 15:13
La guerra civile in Libia non è mai terminata. Quella a cui assistiamo adesso, con le truppe del generale Khalifa Haftar che si dirigono su Tripoli e il presidente designato dalla comunità internazionale Fayez al-Serraj che è ancora al suo posto (per quanto?) grazie all’intervento delle milizie di Misurata, è il seguito dell’aggressione armata alla Libia voluta nel 2011 dalla Nato.
Appena una settimana fa, in una circolare del Viminale, il ministro dell’Interno Matteo Salvini definiva la Libia “un posto sicuro”. In un paese normale chi fa simili affermazioni solo in dispregio della vita umana delle persone rifugiate sarebbe chiamato a rispondere in Parlamento e costretto alle immediate dimissioni.

Quella che si combatte da oltre sette anni in Libia è una doppia guerra sporca
: per il controllo delle enormi risorse petrolifere, e per assicurare un sistema militare e poliziesco volto a rispedire indietro chi fugge da miseria e conflitti.
L’Unione Europea continua ad essere assente in quel contesto, bloccata dagli interessi contrapposti delle compagnie petrolifere di riferimento dei vari paesi (Total, Eni e via discorrendo), con il rischio che il conflitto si propaghi anche alla Tunisia e all’Algeria.

Non ci potrà essere nessuna pace se non sarà chiarito che i proventi del petrolio devono rimanere in mano al popolo libico e fino a quando si continuerà ad armare e sostenere le varie milizie contrapposte.
Dentro questa guerra la nostra principale preoccupazione va alla popolazione civile colpita dai bombardamenti e alle decine di migliaia di persone migranti detenute nei campi libici ed usate come scudi umani o moneta di scambio nel conflitto.
Sono questi i soggetti che devono essere tutelati dalla comunità internazionale e non possono essere lasciati alla mercé delle bande armate.