Che ore sono a Beirut?

4 Febbraio 2020, 12:28

I ragazzi e le ragazze dei Corpi Civili di Pace di Un Ponte Per sono arrivate/i a Beirut, in Libano, dove stanno lavorando a fianco del nostro partner storico locale, Assomoud, nel campo palestinese di Shatila. Sono arrivate/i in un momento delicato per il paese, animato da un movimento giovanile che rivendica un cambiamento e ha dato vita alla sua “thawra”, la rivoluzione. Nei giorni scorsi, anche loro sono sono usciti/e da Shatila per provare a capire cosa sta accadendo. Ecco il loro racconto. 

 

A Beirut la guerra è finita.

Niente più cecchini sulla cima dei palazzi o attentati agli autobus dei civili. Nessuna traccia dei caccia israeliani tra le nuvole. È silenziosa l’alba a Beirut.

Il silenzio è rotto solo da qualche clacson sfiatato, dagli altoparlanti delle moschee in lontananza e dal verso dei gabbiani che attraversano lenti lo skyline sopra la Grande Moschea. I minareti sembrano alti soldati a protezione di uno scrigno prezioso, controllano il tesoro con solerzia, in ogni momento. I riflessi azzurri della cupola, come tappeti volanti a mezz’aria, si confondono con il cielo.

La città che si desta dal suo torpore è in un momento privilegiato per farsi osservare, i segni dei proiettili prendono lentamente forma, indelebili come lentiggini, colorano i muri ingialliti delle vecchie case.

A fianco ai nuovi palazzi patinati, automobili costosissime ed enormi mall metropolitani, circondati a loro volta da palazzi decadenti, calcinacci sporgenti dai balconi e cantieri che – a giudicare dalla vegetazione spontanea cresciuta tutta intorno – sembrano in costruzione da decenni. E poi moltitudini di costruzioni futuristiche a fianco a vecchie case senza i vetri alle finestre. Basterebbe questa urbanistica sconclusionata per mostrare le immani contraddizioni della città.

Prendiamo la questione dell’elettricità: il Libano negli anni ’60 aveva un sistema elettrico ordinario, che copriva autonomamente i bisogni della popolazione.

Alla fine della sanguinosa guerra civile, durata circa tre lustri, il sistema era completamente devastato. Ancora oggi ci sono continui black out e determinate fasce orarie in cui manca totalmente la luce. Chi ha soldi abbastanza per permettersi l’allaccio ad un generatore privato avrà l’energia elettrica h24. Tutti gli altri no.

La luce in casa come primaria cesura sociale tra chi può e chi non può.

Quando la città si anima prende vita finalmente quella danza collettiva di automobili, taxi, moto e van: la musica che si balla è quella dei clacson che non tacciono mai. I quartieri vivono la propria vita in un incessabile movimento collettivo verso qualcuno o qualcosa, perennemente di corsa. Senza citare il microcosmo ottenebrante e confuso dei campi palestinesi, che meriterà un approfondimento a parte.

Ogni negozio, ogni taxi, ogni banchetto di street food che riempie le strade di odori e di spezie, presenta un’ostentazione quasi maniacale di simboli religiosi. Corani e santini, rosari e madonne, hijab e kefieh si mischiano rivelando in tutta la sua potenza il pout pourri etnico-religioso libanese.

È possibile comprendere quasi immediatamente se un quartiere è cristiano o musulmano, più difficile carpire se un negozio sia di armeni o di maroniti, di musulmani sciiti o sunniti.

Nel traffico perennemente paralizzato ci si lanciano urla, si scambiano occhiatacce, ma i quid pro quo finiscono quasi sempre ad “alzate di spalle”, nessuno pare avere tempo da perdere in discussioni sterili. Non esistono semafori rossi, né strade a senso unico, o veri e propri divieti di sosta per parcheggiare. Non è raro poter vedere tre-quattro persone sopra un motorino o un materasso sporgere, ancorato “alla buona”, da un portabagagli. È semplicemente la prassi.

La città rimane molto militarizzata: piccoli bunker in cemento armato sono ancora agli angoli dellestrade. Dalle feritoie qualche giovane armato di mitra, con l’aria distratta, osserva la città che gli passa davanti.

Tante vie dei quartieri del centro sono sbarrate dal filo spinato e moltissimi tank cingolati restano sulle pubbliche vie e non solo in prossimità dei check point d’ingresso ai campi palestinesi. Bambini e bambine bisognosi sono spesso in prossimità dei semafori, in cerca di qualche lira o di un po’ di cibo. Larghe fasce della popolazione soffrono la miseria, quella che era la “Parigi del Medio Oriente” sembra solo un lontano ricordo.

I problemi sono molteplici: usare uno smartphone costa tanto, il prezzo della benzina cresce, gli stipendi sono da fame e l’inflazione corre fortissimo. La moneta si svaluta continuamente, chiunque abbia qualcosa, anche lontanamente, prezioso da poter offrire accetterà soltanto dollari.

Ah i dollari.. c’è un mercato nero di valuta forte praticamente ad ogni angolo e alla luce del sole. La popolazione vorrebbe ritirare dollari dagli sportelli automatici per beneficiare di cambi favorevoli ma il governo limita, giorno dopo giorno, la cifra massima ritirabile, cosicché i prezzi corrono sempre più alti, gonfiati dalla bolla del mercato nero. Per questi motivi sono molto frequenti gli assalti notturni dei dimostranti ai bancomat.

Dietro un’estetica di schiene dritte e mascelle serrate si vedono tante facce scure, molta frustrazione e rabbia sociale inespressa. Lo Stato non aiuta, non esistono praticamente pubblici servizi. Ogni famiglia finisce col ricadere costantemente in quel sistema formale e non formale di mutualismo fornito dalla comunità etnico-religiosa di appartenenza.

Scuole, università, ambulatori, centri culturali con attività di qualsiasi tipo, sarà possibile trovare di tutto all’interno della propria cerchia, molto difficile trovarne altrove ed essere accettate\i. Così si perpetra quel sottile gioco di dipendenza\sudditanza tra ogni individuo e il proprio quartiere, la propria comunità.

Ogni raggruppamento religioso è poi fortemente politicizzato e, spesso, a sua volta, diviso in più fazioni, ognuna delle quali ha creato il suo centro e intorno al quale ruota la propria vita sociale e culturale.

Beirut è anche tanto altro: è una città molto viva, piena di eventi culturali e di concerti, di locali,di un associazionismo fortissimo, purtroppo ancora una volta molto settario. Fanno però ben sperare quelle realtà – con alcune collaboriamo noi Corpi Civili di Pace in prima persona – che scelgono coraggiosamente di abbandonare il settarismo e di mostrarsi, agli occhi sprezzanti di molti, come senza radici.

È molto difficile comprendere nel profondo la politica e la società libanese: ogni tentativo, per quanto analitico, produrrà quasi certamente una semplificazione rispetto alla realtà.

C’è una grande passione e partecipazione politica, questo lo si può dire: abbiamo visto le folle oceaniche seguire in estasi l’epitaffio di Nasrallah – il segretario del partito e gruppo paramilitare sciita, filoiraniano, Hezbollah – dopo l’uccisione del generale iraniano Soleimani.

E poi da più di 100 giorni c’è la ‘thawra’, la rivoluzione dei libanesi e delle libanesi stufe del settarismo, stufi delle divisioni tra sciiti e sunniti, stufe di una classe politica che brandisce spauracchi complottisti e vecchi slogan, senza riesce a tirare fuori il Paese dalla melma di povertà e corruzione in cui sembra caduto. Le proteste pacifiche ecolorate, gli scontri, le bandiere, gli assalti alle banche, gli idranti e le cipolle per resistere ai lacrimogeni. Tutto e il contrario di tutto.

Tante donne e tanti uomini alla ricerca di un futuro migliore. Scende il pomeriggio, quindi la sera e in Martyrs Square si radunano sotto la statua dei martiri centinaia, migliaia di manifestanti, non solo da Beirut ma anche dal nord, da Tiro e da tutto il Libano.

Bloccano le strade, assaltano i luoghi del potere a Downtown, quel potere che li esclude con il suo immobilismo conservatore dall’accesso ad una vita dignitosa.

Poco vicino a Mar Mikhael o ad Hamra universitari/e dell’American University, giovani di buona famiglia, sfrecciano su macchine fiammanti e fanno festa in locali più cari di quelli europei: a Beirut la guerra è finita.

Edoardo Cuccagna, Corpi Civili di Pace di Un Ponte Per

Per leggere gli altri articoli dei/lle CCP in Libano, visita il loro blog.
La foto pubblicata è di Eleonora Gatto.