L’Iraq a un bivio

3 Marzo 2020, 11:53

 

Questa mattina [2 marzo 2020, ndr) Mohammed Allawi ha rimesso il mandato dopo che è mancato il numero legale nella seduta del Parlamento che avrebbe dovuto votargli la fiducia.  L’ex Presidente incaricato ha dichiarato di essere stato costretto a questo passo “dalle pretese dei gruppi politici che badano ai propri interessi invece che a quelli del paese”. Contemporaneamente due missili sono caduti vicino all’ambasciata statunitense nella zona verde a Baghdad. Nelle piazze, che di nuovo si stanno riempiendo, non si esulta per il fallimento di Allawi, che comunque era osteggiato dai manifestanti, perché, si dice, “hanno comunque vinto i vecchi partiti corrotti e settari”. Né Iran né Usa hanno ancora commentato.

Di Fabio Alberti – Un Ponte Per

Entro il 1 marzo l’Iraq potrebbe avere un nuovo governo. Dopo due rinvii il Parlamento è stato convocato, nuovamente, dal Presidente della Camera, il sunnita Mohamed al Halbousi, per il voto di fiducia alla rosa di ministri presentati mercoledì dal Presidente Incaricato, Mohammad Tawfiq Allawi.

Un voto sul cui esito e sulle cui conseguenze permangono tuttora molte incognite dopo che un gran numero di gruppi politici, appartenenti a tutti gli schieramenti, hanno minacciato di non votarlo se non saranno inseriti nel governo nominativi da loro indicati.

Allawi, sciita, era stato incaricato dal Presidente della Repubblica, il curdo Barham Saleh, di formare il governo dopo che il 29 novembre scorso, sotto la pressione della piazza, il precedente primo ministro, Adel Abdul Mahdi – vicino a Teheran, ma non inviso a Washington – era stato costretto alle dimissioni.

La ricerca di una personalità “che rispondesse ai criteri indicati dai manifestanti”, come si affannavano a dichiarare tutte le forze politiche, spaventate dalla resilienza del movimento che permaneva nonostante centinaia di vittime e dall’appoggio loro dato dalla guida spirituale sciita Al Sistani, era durata oltre un mese, dopo che un numerosi candidati erano stati costretti a rinunciare proprio per l’ostilità delle piazze.

Allawi, il giorno stesso della sua nomina, aveva inviato un appello alle manifestazioni, chiedendo di essere sostenuto, dichiarando che non avrebbe accettato dai partiti indicazioni nominative per i ministeri, che avrebbe perseguito i responsabili delle violenze contro le manifestazioni e la corruzione, che avrebbe riportato il paese alle urne entro un anno.

Ma non aveva convinto il movimento che occupa le piazze del paese, soprattutto al centro-sud, quasi ininterrottamente dal 1° di ottobre nonostante gli oltre 600 morti e 25.000 feriti causati dalle forze dell’ordine e dalle milizie filoiraniane. Nonostante anche in Iraq si sia diffuso il timore del coronavirus e siano in atto misure di contenimento, ancora martedì scorso 1 milione di persone hanno nuovamente manifestato.

Il movimento, a trazione studentesca, ma con l’appoggio di tutti i settori sociali, dopo aver ottenuto le dimissioni del governo Mahdi aveva chiesto che il Primo Ministro che dovrebbe portare il paese alle elezioni anticipate entro un anno – oltre ad essere di chiara fama e probità – non fosse diretta espressione dei partiti, non fosse stato ministro precedentemente, non avesse il doppio passaporto, non fosse stato coinvolto in fatti di corruzione e soprattutto che non fosse individuato sulla base della sua appartenenza a gruppi etnici o religiosi.

La fine della divisione settaria del potere, instaurata dalla occupazione statunitense, è infatti il primo e più rilevante obiettivo politico del movimento di massa.

Caratteristiche che il Primo Ministro incaricato Allawi non possiede: all’estero dagli anni ’70 è rientrato nel paese dopo la guerra del 2003, è stato affiliato al partito islamico Da’wa, che ha nominato due precedenti Primi Ministri, è stato due volte Ministro delle Comunicazioni nel governo Maliki, dal quale si è per la verità dimesso, ha un passaporto britannico e soprattutto “viene dalla stessa elite politica che ha portato il paese alla rovina”.

Le piazze irachene, anche se con qualche posizione differente all’interno, hanno quindi rigettato sin dal primo giorno il nome di Allawi, come avevano già fatto con altri candidati, ma questa volta la candidatura non era stata ritirata.

Il nome di Allawi sarebbe stato concordato tra le due principali fazioni sciite (Sairoun guidata dal potente clerico sciita Moqtada al-Sadr, di orientamento nazionalista, e al Fatah di al-Amiri, espressione delle milizie armate filoiraniane) in un incontro a Qom in Iran, all’indomani dell’attacco statunitense che aveva ucciso il generale iraniano Qasem Soleimani e il vice capo delle Forze di Mobilitazione Popolare Abu Mahdi al-Muhandis, celebrando così la ritrovata unità dopo mesi di contrasti.

I blocchi politici sunniti e curdi non si erano opposti, mentre il premier incaricato aveva incassato l’appoggio di Teheran e, più tiepidamente, di Washington. Sul suo nome si è speso con determinazione al-Sadr, sino a quel momento principale politico sostenitore della rivolta, che da allora ha ritirato la partecipazione del suo movimento dalle piazze, chiedendo ai/alle manifestanti di “tornare a casa” e qualche volta lasciandosi andare a violenze contro gli/le studenti.

Come si temeva l’attacco statunitense ha favorito il riavvicinamento tra le correnti sciite, che si è concretizzato nella grande manifestazione del 25 gennaio scorso per l’allontanamento delle truppe statunitensi, votato dal Parlamento e a cui, con un’inversione delle parti, si oppongono decisamente le formazioni di rappresentanza sunnita, oltre che i partiti curdi.

Il ritiro dei sadristi dalle piazze aveva fatto temere che le proteste – già indebolite dall’attacco statunitense – si sarebbero sgonfiate. Questo probabilmente era l’obiettivo di Muqtada al-Sadr, che avrebbe così dominato la scena politica irachena. Invece è successo il contrario. Le piazze hanno continuato a riempirsi nonostante la ripresa della repressione e degli attacchi da parte delle milizie filoiraniane.

L’esito del voto sul governo però non è del tutto scontato. Le trattative di Allawi con i blocchi politici sono state lunghe e complesse. Il Primo Ministro incaricato ha più volte dichiarato di aver scelto i nominativi dei ministri in completa indipendenza sulla esclusiva base delle competenze e non sulla base delle indicazioni dei partiti. Ma questa è la facciata, i partiti non hanno affatto rinunciato ad una rappresentanza diretta nel gabinetto.

Così negli scorsi giorni, dopo che Allawi ha reso nota la rosa dei nomi, sono fioccate le prese di distanza. Forze politiche curde, turkmene, cristiane e persino sunnite (che pure avrebbero un presenza numericamente superiore al loro peso politico) hanno rivendicato una maggiore o diversa rappresentanza. Sono tutt’ora numerosi i parlamentari che sospendono il giudizio, tenendo il governo appeso ad un filo che domani si potrebbe anche spezzare.

Ma non solo di nomi si è parlato. Tra le questioni con implicazioni internazionali in ballo anche la presenza militare statunitense nel paese, i rapporti con l’Iran e l’”accordo del secolo” con la Cina. In pratica, sulla pelle dei/delle manifestanti è in corso anche qui la terza guerra mondiale a pezzi.

5.200 militari statunitensi erano rientrati in Iraq nel 2015, dopo il ritiro ordinato da Barak Obama nel 2011, con il pretesto della collaborazione alla guerra contro Daesh, che aveva occupato tutto il nord del paese, e sono rimasti anche dopo la fine della guerra e la riconquista di Mosul. Il loro allontanamento è stato chiesto con il voto della maggioranza sciita dal Parlamento dopo l’attacco statunitense di inizio gennaio, con la contrarietà – per una significativa inversione delle parti – delle forze sunnite che maggiormente avevano partecipato alla resistenza armata ed ovviamente con l’opposizione della rappresentanza curda. Sul punto sembra si sia trovata una mediazione con la fittizia sostituzione delle milizie Usa con l’ampliamento della missione Nato, annunciata a metà febbraio dal Segretario generale della Nato, Stoltenberg.

Altra questione dibattuta dietro le quinte è il rapporto con la Cina e l’accordo “Oil for Reconstruction”, firmato nel 2015 dal governo Abadi ed entrato in vigore il 1° ottobre 2019. L’accordo prevederebbe (il testo integrale è segreto) un piano ventennale di investimenti in infrastrutture (scuole, ospedali, strade, porti ed aeroporti) per un valore stimato di oltre 20 miliardi di dollari, finanziato con un fondo alimentato dalla cessione di 100.000 barili di petrolio al giorno. Il dibattito sull’accordo è scoppiato dopo che alcune milizie avevano hanno accusato le manifestazioni di essere state fomentate dagli Stati Uniti proprio per impedire che l’accordo con la Cina entrasse in vigore.

Come prevedibile lo scontro riproduce, a schieramenti inversi, quello sulla presenza statunitense e si svolge tra l’esaltazione di virtù taumaturgiche degli investimenti cinesi, paragonati al Piano Marshall, e la enfatizzazione dei rischi di dipendenza economica e politica che potrebbe comportare.

Non è chiaro come la questione sarà risolta dal nascituro governo, e forse sarà congelata sino alle prossime elezioni. Ma intanto l’influenza cinese, già secondo partner commerciale ed importatore di petrolio iracheno, cresce.

E l’Iran, la cui abnorme influenza sulla politica irachena è stata al centro della rivolta di ottobre? E gli Stati Uniti? Non stanno certo a guardare e premono, il primo facendo minacciare la ripresa della lotta armata ad alcune delle milizie armate a lui fedeli, i secondi minacciando sanzioni economiche con cui potrebbero bloccare i conti correnti in dollari dello Stato iracheno. Dipenderà anche da loro il comportamento dei loro più evidenti proxi iracheni.

Come il tutto il Medio Oriente, la posta in gioco, come bene hanno intuito gli/le studenti iracheni/e, è la vera indipendenza del paese, come condizione per sopravvivere nell’epoca dello scontro globale tra potenze.

Qualunque sarà il voto di sabato o domenica la vicenda irachena potrebbe essere ad una svolta. Nella peggiore delle ipotesi il fallimento di Allawi potrebbe portare ad una destabilizzazione che sfoci in guerra civile, il suo successo ad un ricompattamento delle elite irachene che segni la fine della rivolta e la sua repressione.

Una terza possibilità esiste ed è nelle mani delle giovani generazioni irachene e nella loro splendida capacità di tenere duro “pacifici/che fino alla vittoria”, condizionando l’operato del nuovo governo, portandolo alle elezioni ed impedendo la ripresa della violenza inter-settaria.
Fabio Alberti – Membro del Comitato Nazionale di Un Ponte Per, 28 febbraio 2020