Da Rosa Parks a Fatima, la lunga strada dell’antirazzismo in Libano

22 Dicembre 2020, 19:02

Da circa un anno Un Ponte Per ha costruito una nuova alleanza in Libano.  Si tratta di quella stretta con ARM, Anti-Racism Movement. Ce la racconta Edoardo Cuccagna, a Beirut con i Corpi Civili di Pace.

L’organizzazione nasce nel 2010 come collettivo dal basso di giovani attiviste e femministe libanesi, in collaborazione con lavoratrici/tori migranti. In particolar modo ne fanno parte moltissime “migrant domestic workers” (MDW), collaboratrici domestiche migranti, della cui tragica situazione – ogni tanto – qualche media si ricorda di parlare.

Sono perlopiù africane: vengono dal Sudan, dall’Etiopia, dal Burkina e da tanti altri paesi dell’Africa subsahariana ma anche, in buona percentuale, dal sud-est asiatico. A Beirut se ne vedono moltissime accompagnare signore ben vestite, mentre portano le buste della spesa o il cagnolino al guinzaglio. A volte si vedono sedute a bordo di enormi Suv, rigorosamente sul sedile di dietro. Lo sguardo assorto tra i clacson che urlano. Fuori dal finestrino c’è Beirut all’imbrunire, tante luci da guardare e a cui affidare la propria speranza di un’esistenza diversa. Magari dolci ricordi di casa tornano alla mente di queste donne, gli affetti lontani, l’infanzia, magari invece i ricordi di casa sono talmente orribili che anche un presente fatto di vessazioni quotidiane può illudere di aver compiuto un qualche scatto sociale. Di avercela fatta, poi, tutto sommato.

“La condizione delle lavoratrici domestiche migranti, e in generale delle persone rifugiate in Libano è molto complicata – ci spiega Eleonora, Relief Project Manager italiana di ARM. “La maggior parte di loro è rappresentata da donne provenienti da contesti sociali ed economici molto difficili, il che le pone in una condizione di vulnerabilità sotto diversi piani: sessismo, classismo, razzismo”.

ARM, nato come un semplice collettivo, prende coraggio e si struttura. Fino a diventare una Ong nel 2011. L’episodio a seguito del quale avviene il fatto è un “incidente” a sfondo razziale, avvenuto davanti a una delle località balneari private più famose di Beirut, che lascia trasparire parecchio dell’aria che si respira.

C’è Fatima*, una donna migrante, sola, con la carnagione scura. Vorrebbe entrare nello stabilimento ma non le viene permesso l’accesso alla struttura.
La scusa è la solita: l’accesso è riservato ai soli soci.
Fatima insiste, vorrebbe entrare ma non c’è verso.
Poco dopo un volontario di ARM si presenta e prova anche lui ad entrare, non è socio della struttura, ma è un uomo e non ha la pelle scura.
“Nessun problema, prego signore si accomodi”.

Ne nasce una discussione, vengono chieste spiegazioni dall’uomo e da Fatima, che nel frattempo è rimasta nei paraggi. Le risposte ricevute sono scioccanti e interessanti allo stesso tempo, raccontando forse più di tanta saggistica la reale condizione delle lavoratrici migranti in Libano.

Il responsabile dello stabilimento – colto evidentemente in flagranza di discriminazione – si difende affermando che il problema non sarebbe il genere o il colore della pelle di Fatima, bensì il fatto che la donna sia sola. E neanche “la solitudine” in sé sarebbe stata un problema. La questione – come ben presto si rende evidente – è che nel facoltoso club sono presenti altre domestic workers, tutte però accompagnate dai loro “datori di lavoro”, tutte a servizio delle famiglie ospitate. Continuando a discutere viene fuori che a queste donne, ammesse nel club senza problemi, loro sì, in quanto “accompagnate” – non sarebbe tuttavia permesso di fare il bagno in piscina.

Di fronte a una presa di posizione così manifestamente ingiusta il volontario di ARM fa notare come ciò rappresenti un comportamento palesemente discriminatorio, vietato dalla legge libanese. Allora il responsabile dello stabilimento, sfiancato dalla discussione – evidentemente inusuale – finalmente ammette di lasciare entrare le lavoratrici in piscina solo se “entrano in acqua contestualmente al loro datore di lavoro”. Per capirci: una donna migrante sola, come Fatima, che avesse fatto il bagno in piscina di fronte a famiglie che hanno al loro seguito altre donne migranti, alle quali non è però permesso entrare in acqua quando vogliono (se non contestualmente…), avrebbe evidentemente creato imbarazzo, sovvertendo l’ordine sociale prestabilito. Raccapricciante. Il video dell’accaduto però fa tante visualizzazioni, viene coinvolta la Magistratura, lo stabilimento sarà costretto a delle scuse ufficiali. Tutto bello, ma quel sistema è ancora lì, intoccato.

È il sistema della kafala, o ciò che più spesso si sostanzia in una vera e propria schiavitù legalizzata. Quando un siffatto sistema lo si osserva da vicino, lo si respira, è difficile non pensare immediatamente all’apartheid sudafricano o alla segregazione razziale negli Stati Uniti. Come Rosa Parks che con il suo famosissimo rifiuto sull’autobus scosse le coscienze di mezza America così Fatima, con la sua storia, ha creato attorno ad ARM quel hype che ha indignato tante persone, avvicinandole e raccogliendo simpatizzanti e volontari/e, nonché riuscendo fornire tutti i servizi che oggi fornisce.

Raccontato l’episodio, spieghiamo anche un po’ di teoria: la kafala è quel sistema legale che permette la sistematica oppressione e lo sfruttamento delle migrant domestic workers in Libano (e ampiamente diffuso in quasi tutti i Paesi del Golfo). Le lavoratrici infatti non sottostanno al diritto del lavoro libanese, bensì sono governate dalla kafala, un complesso sistema di sponsorship di derivazione religiosa. La sponsorizzazione del datore di lavoro/sponsor vincola la stessa presenza delle lavoratrici nel paese al rapporto con lo sponsor, finendo col concedere al datore di lavoro “un potere praticamente indefinito sulle lavoratrici, che si ritrovano in una posizione di bisogno tale da essere facilmente sfruttate e abusate” – come ci spiega Eleonora.

Non essere tutelate dalla legge sul lavoro significa che non esiste diritto al salario minimo, né regolazione del monte orario, giorni liberi, malattie, tutele assicurative o condizioni dignitose lavorative da dover rispettare. “Se una lavoratrice decide di non accettare le condizioni offerte e si ritrova a lasciare la casa del datore di lavoro senza il suo consenso – continua Eleonora – automaticamente perderà la residenza, il suo passaporto verrà trattenuto, come è da prassi consolidata, venendo messa nella condizione di poter essere arrestata e quindi espulsa in ogni momento. Inoltre le lavoratrici non possono svolgere autonomamente altre professioni nel tempo libero né fondare o riunirsi in sindacati”.

Correntemente in Libano ci sono circa 300.000 lavoratrici domestiche migranti. La stragrande maggioranza sono donne e vivono le condizioni che vi raccontiamo, una parte con la famiglia al seguito, l’altra parte completamente sole. Sono tante, sono isolate e strangolate molto spesso da un quotidiano di oppressioni e vessazioni.

ARM vuole aiutarle, perseguendo obiettivi di giustizia sociale ed economica per tutte le persone migranti e rifugiate in Libano, con un importante focus sull’empowerment femminile, sull’intersezionalità dei livelli di oppressione e quindi delle battaglie da combattere.

Autodeterminazione e autorganizzazione sono centrali per la mission di ARM – “perciò sosteniamo la leadership delle stesse migrant workers nelle lotte per i diritti e nell’attivismo” – aggiunge Eleonora nel Migrant Community Center dove la intervistiamo, un vero e proprio – “safe space per persone migranti, dove potersi incontrare, stringere relazioni e scambiare informazioni”.

In un paese come il Libano in cui gli spazi pubblici di incontro rappresentano una chimera, è qui nel Centro che avviene quel processo virtuoso per cui le persone, continuamente percepite come beneficiarie di aiuti o come soggetti passivi, diventano protagoniste di un processo che mira a cambiare le norme sociali, stigmatizzando atteggiamenti e comportamenti intollerabili.

Poi certo, c’è sempre la struttura di ARM che “le supporta e collabora con loro per ideare e condurre azioni e campagne contro le discriminazioni razziali sistemiche, lottare per maggiori diritti e combattere la kafala”, rassicura Eleonora, ma il sistema di empowerment mira a rendere autonome queste donne, anche e soprattutto nella lotta per le proprie rivendicazioni.

Il 2020 è stato un anno complicatissimo per tutte/i, lo sappiamo, ma alle discriminazioni endemiche del sistema-Libano si sono aggiunte nuove contingenze: prima la profondissima crisi economica, quindi la pandemia Covid-19, poi la super-inflazione monetaria, infine l’esplosione del Porto di Beirut e tutto che sembra andare a rotoli.

Ognuno di questi fattori ha peggiorato le condizioni di vita di lavoratori e lavoratrici stranieri/e in Libano, nonché dell’enorme comunità di rifugiate/i. Li ha costretti/e in una grave povertà, molte persone hanno perso il lavoro, quelle che ancora lavorano vengono pagate in lire e non in dollari o non vengono pagate affatto, altre sono bloccate in Libano perché non hanno le risorse per tornare nei paesi d’origine. Molte faticano a pagare l’affitto e vivono sotto quotidiana minaccia di sfratto, faticando così a mangiare, per non parlare del lusso di accesso a delle cure mediche.

ARM non si è perso d’animo e ha inaugurato il nuovo Relief Project per dare risposte concrete alle persone in difficoltà. Il progetto ha introdotto due servizi fondamentali: uno per il sostegno all’accesso al cibo, l’altro per il diritto alla casa.

Partiamo dal primo. Di comune accordo con le comunità che lo sostengono, ARM ha deciso di lanciare un progetto di soccorso che distribuisce kit di cibo e beni di prima necessità ai/alle migrant workers maggiormente in difficoltà. “Attualmente supportiamo 4.000 famiglie con la distribuzione di 1.500 kit al mese”, ci dice soddisfatta Eleonora. Ma come avviene il processo di distribuzione? le chiediamo incuriositi. “Il primo step consiste nel ricevere le richieste dalle persone in difficoltà tramite la nostra helpline. Una volta conosciuta la singola situazione in tutti i dettagli, inseriamo i/le beneficiari/e nel database e organizziamo la distribuzione quotidiana. Quattro o cinque furgoni vengono al centro la mattina presto… diamo le liste agli autisti che distribuiranno nel corso del giorno agli indirizzi designati”. Le volontarie che preparano i kit sono tutte lavoratrici migranti a loro volta, che scelgono di dedicare più ore del loro tempo – per più giorni alla settimana – a preparare i kit per le distribuzioni.

“Poi effettuiamo chiamate di controllo alle beneficiarie per verificare che abbiano ricevuto i kit e non manchi nulla, se hanno lamentele, consigli”, ci spiega May, coordinatrice dell’helpline e collega di Eleonora. “E’ un modo fondamentale per noi per mantenere questo flusso comunicativo con la comunità che ci fornisce dei feedback per adattare le nostre operazioni di conseguenza”.

Anche May ci racconta come sia fondamentale iniziare bene il lavoro tramite la ricezione meticolosa delle chiamate dalle persone bisognose. Le necessità sono un po’ sempre le stesse: supporto alimentare, questioni di sfratti ed eventuali necessità mediche. Della questione sfratti ci parla invece Rim, project officer della seconda componente di intervento. Ci spiega come il team housing supporta le famiglie a rischio sfratto: da aprile 2020 fino a fine novembre sono stati segnalati 260 casi, supportando poi attivamente 149 persone, tra cui 104 donne e 39 bambini/e tramite un aiuto momentaneo per l’affitto e negoziazioni con i padroni di casa riguardo le mensilità arretrate o problemi di altro tipo.

Rim ci spiega come venga realizzato una sorta di “assessment” per ogni singolo caso, fino a quando “una volta compresa la situazione specifica l’housing assistent assegnato alla famiglia negozierà con il padrone di casa e, a seconda di differenti criteri e sistemi di priorità, valuterà l’erogazione di un supporto per l’affitto”.

Rim, Eleonora, May. Tutte donne che portano negli occhi la serietà e la fierezza di chi quotidianamente conosce e affronta le sofferenze. Nel Migrant Community Center si fa moltissimo.  Mentre chiacchieriamo il rumore delle volontarie – impegnate a preparare i kit per la distribuzione – accompagna i nostri discorsi: il ticchettio stridulo degli spaghetti spezzati, il tambureggiare sordo dei fagioli che passano – dentro una paletta di plastica – da un sacco enorme a uno più piccolo o quello soffice e sabbioso dello zucchero o della farina.

Molte sono le persone che vengono aiutate, ma tantissime restano senza fissa dimora o minacciate di sfratto senza nessuna tutela, spesso vessate da minacce o richieste illegali. ARM è dalla loro parte ogni giorno dell’anno, lo vediamo negli occhi di queste donne coraggiose che hanno deciso di non arrendersi, di non accettare lo status quo delle cose come “inevitabile”, di seguire l’esempio di Fatima.

Un Ponte Per è dalla loro parte. Grazie al vostro supporto e alle donazioni per la raccolta fondi “Emergenza Libano – Con Beirut nel cuore” abbiamo aiutato molte persone. Non abbandoniamo ARM, così come le altre realtà che abbiamo deciso di supportare in questo momento difficilissimo.

Continuate a donare su https://fundfacility.it/unponteper/emergenza-libano

Edoardo Cuccagna – Corpi Civili di Pace di UPP, Beirut.

*nome di fantasia