Genova davanti a noi

16 Luglio 2021, 7:57

di Alfio Nicotra, co-Presidente di Un Ponte Per.

 

Tutte le volte che devo parlare o scrivere di Genova 2001 temo sempre di scivolare nella nostalgia. È stata un’esperienza talmente forte che il confronto con l’oggi la rende impietosa. Manca tutto di quel periodo: la vivacità culturale, l’idea che stavamo mettendo in campo una forza popolare e internazionale e di essere tra i protagonisti di quello che chiamammo “il movimento dei movimenti”. Mi manca il partito che fu capace di mettersi alla pari delle altre realtà associative e di movimento, ponte e cerniera tra anime e sensibilità diverse, tanto da scegliere la contaminazione come modus operandi. Genova stessa è cambiata anche nella pelle. Quando organizzammo il controvertice tutti e tre i livelli istituzionali locali, comune, provincia e regione erano controllati dal centrosinistra, oggi tutto è capovolto e la destra governa anche la città che fu dei ragazzi con le magliette a strisce.

Nostalgia canaglia diceva un ritornello di una canzoncina degli anni ’80, va tenuta fuori dal nostro ragionamento e semmai capovolgerla.

Quando un gruppo di giovanissimi ci ha proposto un progetto, “Genova Venti Zerouno, il mondo che verrà” con l’obiettivo di connettere diverse generazioni, trasmettere memoria ma anche l’attualità dei contenuti per i quali battersi, noi di Un Ponte Per abbiamo detto subito di si. Una piccola cosa si dirà, ma a chi come me, ha vissuto ogni minuto della lunghissima gestazione di Genova, rappresenta un grande segno.

In mille cose, nonostante questi tempi di arretramento, vedo che il seme di quella lotta non è andato perduto e che, qua e là, nel mondo e nella società continua a germogliare.  Genova è davanti a noi.

 

Il caleidoscopio del Genoa Social Forum

Se vogliamo vedere Genova veramente, anche vent’anni dopo, dobbiamo farlo attraverso la lente di un caleidoscopio: tanti frammenti di colori che nel loro mutare sono capaci di esaltarsi a vicenda.  Multiforme e mutevole, polimorfo e variopinto il Genoa Social Forum fu un capolavoro della politica di movimento. Seicentocinquanta sigle sulla carta, senza contare le reti europee. Uno spettro talmente vasto da rendere facile ogni previsione avversa: basterà poco, ci dicevano i detrattori, per mandarlo in frantumi. Invece il  Gsf sorprese tutti. Mesi di duro lavoro per curare le relazioni, avvicinare i linguaggi, rendere conveniente e utile camminare insieme. Ci siamo voluti bene nel costruirlo giorno dopo giorno, passando da Praga, Nizza, Napoli, Porto Alegre. Riunioni su riunioni, la rete si allargava. Arrivammo ai giorni del G8 con questo spirito. Iniziammo con i seminari ed incontri stracolmi, con la gioia festosa del corteo per i migranti e la musica di Manu Chao che tenne un concerto strapieno nel lungomare di Genova.  I genovesi furono straordinari e non parlo solo del tessuto associativo che a quel tempo era ricchissimo ed attivo ma di chi disobbediva, dentro a quelle gabbie di acciaio in cui avevano chiuso la città, anche alle disposizioni di polizia sul decoro, come quella di non stendere i panni alle finestre nei giorni del summit per non disturbare la visione degli otto grandi. Una mutanda come bandiera appesa ai fili delle case. Moltissime mutande irriverenti.

 

La sorpresa di Genova

Il mondo politico non si aspettava Genova. Non quella forza, quel movimento, quella vastità del fronte sociale e politico. Pensavano di gestirlo con le caramelle delle Ong addomesticate e mettendo nel conto qualche scaramuccia tra tute bianche e polizia. Eppure, tradivano la loro paura. Una città blindata all’inverosimile messa letteralmente in gabbia. Che l’aria fosse cambiata lo si era visto già a Seattle e Praga ma non pensavano con quella dimensione.

Anche a sinistra si faceva fatica a capirlo. Ricordo ancora il colloquio con il responsabile organizzazione del mio partito. Milziade Caprili, un bravissimo compagno di scuola Pci: “Alfio, quanta gente pensi che verrà a Genova?”, “Non lo so” – risposi – ma sicuramente tanta”, “Qualche migliaio – mi rispose lui – non si è mai vista in piena estate una manifestazione con più di cinquemila persone”. Invece il 21 luglio sul lungomare di Genova c’erano oltre 200 mila, scese in piazza nonostante un giovane assassinato il giorno prima ed una repressione brutale e spietata.

 

Uscire dal guscio

A Genova il movimento dei movimenti osò volare in alto, uscire dal guscio della nicchia, diventare popolare e più che altro contagioso. Si muoveva contro un G8 organizzato dal centrosinistra ma poi tenuto, con le stesse modalità pensate dal governo precedente, dal centrodestra. Per questo il movimento andava stroncato: che il mondo intero doveva vedere che non era possibile rialzare la testa. Il pensiero unico del mercato non ammetteva di essere messo in discussione alla radice. Se non si può comprare un movimento o non lo si può cooptare per sterilizzarlo nel salotto buono, quel movimento deve essere fermato. Ci provarono, ma a pensarci bene, non ci sono riusciti del tutto.

 

Voi G8 noi 6 miliardi

Ricordo quando inventammo quello slogan che da solo era un manifesto politico: fu in una delle tante riunioni preparatorie del Genoa Social Forum che si svolgevano nella sede del WWF in una stradina stretta proprio sotto piazza De Ferraris. Dovevamo pur trovare una parola d’ordine che sottolineasse l’illegittimità di un’istituzione che si formava per censo. Il G8 era la celebrazione nella globalizzazione di un potere medioevale: erano gli otto più ricchi del pianeta che si arrogavano il diritto di decidere sull’intera umanità. Molti nel Gsf insistevano sulla parola d’ordine di Porto Alegre “un altro mondo è possibile”. Giusto e allusivo della nostra volontà di cambiare il pianeta ma, da sola non aveva l’effetto denuncia di una istituzione a-democratica.

Scrissi il “voi G8 noi 6 miliardi” su un foglietto e lo proposi alla riunione. Accoglienza fredda, ero convinto che la proposta fosse stata bocciata.

Due settimane dopo, con mia immensa sorpresa e soddisfazione la trovai come slogan del movimento al quale aveva lavorato anche un gruppo di grafici. Era perfetto: gli otto omini rossi circondati da una folla di omini neri. Un disegno quasi infantile ma di grande efficacia. A pensarci bene anticipammo di 10 anni lo slogan di Occupy Wall Street : “siamo il 99%”.

 

Piazza Alimonda

Ci sono volute settimane, forse mesi, prima che ricominciassi a dormire normalmente. Tutte le volte che chiudevo gli occhi non controllavo più né l’olfatto né l’udito. Quel maledetto ronzio dell’elicottero sopra la testa mi perseguitava, e tutte le volte che lo sentivo il mio naso bruciava. Bruciava di lacrimogeni al Cs, il gas proibito dalle convenzioni internazionali ma che i signori del G8 avevano deciso di farci respirare per due giorni di seguito. Ricordo il momento in cui la testuggine dei disobbedienti si fermò alla fine di via Tolemaide. Ero con il deputato del Prc Ramon Mantovani e vidi il plotone dei carabinieri fare capolino all’angolo. Gli dissi che conoscevo il comandante e che sarebbe stato opportuno parlargli e spiegare che quello era un corteo autorizzato e che non c’entrava niente con il delirio di auto bruciate e negozi spaccati.

Ecco ora ci incamminiamo verso i carabinieri, davanti abbiamo loro, dietro, ad un centinaio di metri a far capolino da via Tolemaide la testuggine. Siamo nella terra di nessuno io e Ramon. Ci sparano contro, lacrimogeni ad altezza d’uomo. Istintivamente mi abbasso e il candelotto si infrange  su un grande cartello pubblicitario posto al ridosso del sottopassaggio a livello. Delirio: l’aria è diventata irrespirabile. Gli occhi non vogliono rimanere nell’orbita, si ribellano a quelle punture urticanti che ti trasformano il bulbo bianco in uno spicchio di arancia. A proposito di agrumi: ci salvano i limoni imbevuti nell’acqua che una ragazza del Carlini ci porge con prontezza. Li tiene in dei secchi sopra un carrello della spesa. L’aggressione al corteo è cominciata e noi siamo arretrati.

Squilla il telefonino, mi chiedono dove sono. Guardo in alto e dico: “una piazza, credo piazza Alimonda”. Un nome che non mi diceva niente ma che avrebbe segnato una generazione.

 

Non è un film

Mi sembra di essere in un film. Sono sull’auto di Ramon, gli siedo al fianco. Dietro con noi ci sono Peppe De Cristoforo e Nicola Fratoianni dei Giovani Comunisti. Siamo partiti dallo stadio Carlini in cui era ripiegato parte del corteo respinto dalle forze dell’ordine. Da li proviamo a raggiungere Piazzale Kennedy dove è convocata una assemblea per decidere il dar farsi dopo la repressione e questa notizia che gira sui telefonini è ripresa dalle radio e tv. C’è un ragazzo morto. Anzi forse sono due, c’è anche una ragazza. Nessuno di noi ha voglia di parlare mentre Ramon fa la gincana tra auto bruciate, cassonetti divelti e fumo, tanto fumo.

Mi ripeto: “siamo in un film”. Invece no è Genova ferita, inginocchiata, violentata quella che stiamo attraversando. Sembra un campo di battaglia dopo che i guerrieri si sono ritirati. La zona rossa è lontanissima, l’aggressione che abbiamo subito è assolutamente immotivata. I dati che ho raccolto dicono che la repressione è stata uguale in tutte le piazze dell’accerchiamento. Brutale e gratuita.

 

Disdire o tenere il corteo del 21?

Piazzale Kennedy è strapieno di persone. Mentre si svolge l’assemblea cerchiamo di riordinare le idee. Mettere insieme i dati reali da quelli che sembrano una leggenda popolare. In particolare, il Genoa Legal Forum ha un gran da fare per capire l’entità e il numero dei fermati e dei feriti. Si raccolgono le prime prove documentali per smentire le versioni di regime che già circolano. Abbiamo un problema politico: il giorno dopo abbiamo il corteo internazionale e tutta Italia ci chiede se è confermato.

Svolgiamo un conciliabolo tra i portavoce seduti sugli scogli. Vedo che c’è Ermete Realacci che dice che dobbiamo disdire la manifestazione e chiedere ai treni e ai pullman di tornare indietro “Per senso di responsabilità” aggiunge. Sto per rispondergli male. Mi anticipa Maurizio Gubbiotti, che rappresenta Legambiente nel consiglio dei portavoce del Gsf. “Non disdiciamo niente – afferma – domani si manifesta. Non possiamo dargliela vinta”. Chapeau a Maurizio. Era il segno plastico che nonostante l’indubbia drammatica difficoltà, il Gsf era compatto.

 

Due colpi di pistola: una esecuzione

In serata mi contatta un tipo. Ha un filmato da farmi vedere girato in piazza Alimonda. Mi vedo con lui insieme a Giorgio Malentacchi, un parlamentare del Prc. Sono gli istanti dell’uccisione del ragazzo. Da una jeep dei carabinieri partono due colpi (si sentono distintamente) e dopo il defender sale sul suo corpo disteso a terra. Un urlo squarcia il filmato: “Oddio, nooooo, porca troia! Merde! No, no!”. Altro che sasso che gli avrebbe fracassato la testa. Il filmato dimostrava che era stata una esecuzione. Due colpi di pistola uno a pochi istanti dall’altro. Sono, siamo, tutti smarriti. Non abbiamo il tempo di prendere fiato. Le notizie che arrivano parlano di feriti portati via dall’ospedale, di persone di cui si sono perse le tracce dopo che erano state portate via dalla polizia. Dove sono adesso? Dove li hanno rinchiusi? Stanotte non chiuderemo occhio.

 

L’insopportabilità di un mondo di ingiustizia

Cosa unisce le suore di Boccadasse ai Cobas, ai disobbedienti a Globalace Resistance? L’idea che non ci si può rassegnare ad un mondo ingiusto. Quegli 8 signori che si trovano al Palazzo Ducale hanno la responsabilità di aver redatto una colossale Schindler list di quasi un miliardo di persone per i quali non c’è futuro né come produttori né come consumatori. Per i grandi della terra non dovrebbero semplicemente esistere. Se guardiamo la geografia dell’Aids in Africa scopriamo che ricalca esattamente la mappa della spoliazione di ricchezze operata dalle multinazionali, dai piani di aggiustamento strutturale emessi dalla tolda di comando della Banca Mondiale o del Fondo Monetario Internazionale.

Nel 2000 esistono qualche centinaio di supericchi, tra i quali il nostro Presidente Consiglio dei Ministri Silvio Berlusconi. Detengono nelle loro mani private ricchezze pari all’intero Pil del continente africano. Li possiamo mettere in fila questi signori, al massimo fanno cento metri. Credo che sia questa insopportabilità dell’ingiustizia globale che spinge soggetti tanto diversi ad unirsi a Genova.

Perché un mondo nuovo non nasce se rimaniamo a casa, se la politica non torna nella sua funzione più nobile: al servizio del cambiamento.

Per anni ci hanno insegnato che il capitalismo è la fine della storia, che non c’è niente di più perfetto che il libero mercato. Ma il libero mercato è una bestia che divora umanità e natura. Per questo siamo a Genova, perché c’è bisogno di un nuovo assalto al cielo. E non ci fermeranno, neanche con i manganelli.

 

Da dove veniva tutta quella gente?

Una domanda che mi era stata fatta anni dopo da un ricercatore inglese che studiava “il popolo di Genova” mi chiedeva “da dove veniva tutta quella gente? Quale percorso li aveva portato a Genova?”. Penso che ognuno di loro potrebbe raccontare la sua di storie, le ragioni per cui quel giorno di estate si ritrovava li tra tutto quel tumulto e moltitudine. La mia storia è più strutturata. Ha radici nei blocchi contro i missili a Comiso e nell’impegno contro i mercanti di morte, passando alla solidarietà con gli zapatisti, frequentando cristiani di base e centri sociali. Comiso e Genova furono anche le due volte in cui ho assaggiato il manganello. La prima sulla schiena la seconda nello stomaco. Ma non fu nei giorni del G8. Era stato alcuni anni prima mentre contestavamo la Mostra navale bellica che si svolgeva nella fiera adesso trasformata in quartier generale delle forze dell’ordine. Non fu un fatto cruento. Cercavo di scavalcare le ringhiere per entrare in quella fiera di mercanti di morte e un poliziotto mi fermò con il manganello piantato sullo stomaco. Ci guardammo negli occhi. Mollò la pressione e mi lasciò andare. Nella Genova del 2001 trovavo invece una violenza fuori controllo da parte delle forze dell’ordine. Già nella mattinata del 20 luglio venni immortalato in una foto a piazzale Brignole che discutevo animatamente con Vincenzo Canterini comandante del primo reparto mobile che gestiva la piazza. Gli domandavo le ragioni di una così gratuita violenza (ed eravamo solo all’inizio, nelle prime ore della mattina) contro manifestazioni autorizzate. Mi disse, in soldoni, che noi eravamo i buoni ma che c’erano nascosti tra di noi anche i cattivi. Intanto, per tenersi in forma, picchiavano i buoni.

 

Sulle scale della Diaz

Sono li che salgo quelle scale quella maledetta sera del 21 luglio.  Con me il compagno Fiorino Iantorno di Attac e Fausto Pellegrini giornalista di Rainews24. Stiamo entrando alla Diaz. Siamo i primi. Le belve se ne sono andate da poco, portando via il loro bottino umano umiliato, offeso e pestato a sangue. Già sangue: è dovunque. È ancora calda, sembra quasi di sentirle addosso quelle violenze, quelle torture. Raccolgo un beauty, muovo un sacco a pelo intriso di sangue. “Questo è un mattatoio mi dico”. Non so se urlare o piangere. Penso che dobbiamo riprendere tutto, immortalare nel video questa inusitata violenza. Siamo stati fuori per ore a fronteggiare i cordoni della polizia mentre qui dentro i teppisti in divisa compivano questo scempio.

Si sentono impuniti, sono come i picchiatori fascisti di cui mi parlava mio zio partigiano. Penso che sia tutta una trappola per farci saltare i nervi. Sono convinti che alla violenza risponderemo con la violenza.

Invece in tutta Italia le piazze si riempiono di manifestazioni rabbiose ma pacifiche e composte. Che non ci siano dubbi su chi è responsabile di questa cosa abominevole e sulle responsabilità di chi ha dato il via libera a questa porcheria. La Diaz rimarrà sempre una ferita sanguinante fino a quando mandanti e picchiatori non saranno rimossi dai loro incarichi.

 

Cosa è rimasto di Genova

Il pianeta è ad un bivio: il capitalismo nel suo fallimento può trascinare con sé la natura e l’intera umanità. La pandemia è solo uno dei sintomi di un mondo che cade a pezzi. Il pensiero unico del mercato dato per eterno, invece si incrina, mostra il fiato corto. Le nostre ragioni di allora sono quelle che muovono oggi i giovani di Friday for Future o le donne di “Non una di meno”. Per chi come noi di Un Ponte Per frequenta il Medio Oriente, vede la similitudine nei ragazzi e nelle ragazze che per mesi interi mantengono la piazza e chiedono un cambio politico e giustizia sociale in Iraq, Giordania, Libano e tanti altri Paesi.  In Italia e in Europa ci siamo rimessi insieme con il manifesto della “Società della cura”: volti di allora e volti nuovi.  La richiesta di sospendere i diritti di proprietà sui vaccini (i brevetti) e sottrarre a Big Pharma la possibilità di disporre, per il profitto, della vita di miliardi di persone, sembra uscita da una delle tavole rotonde che tenemmo nel capoluogo ligure. C’è un filo che tiene insieme queste storie e le sue buone ragioni.

Come il referendum sull’acqua, figlio legittimo dei giorni di Genova, dove per la prima volta si parlò in modo diffuso e nuovo di beni comuni. Non c’è solo la casta della politica – sempre di più evocata per scaricare su di essa la rabbia popolare – ci sono soprattutto le caste dei banchieri e degli speculatori finanziari, dei guardiani di Maastricht e dei padroni. Le manovre finanziarie servono a salvare i loro loschi affari, mentre comprimono fino a cancellarli tutti i diritti sociali.

Per questo Genova è davanti a noi e non accettiamo colpi di spugna sul passato. Come la vergognosa sentenza che assolve De Gennaro che da capo della polizia “ignorava” cosa stessero facendo i suoi uomini alla Diaz. Finché avremo fiato, grideremo in ogni dove che i responsabili politici ed i mandanti morali delle torture sui manifestanti e dell’omicidio di Carlo Giuliani devono essere allontanati dai loro incarichi. Finché rimarranno nelle loro funzioni è l’intera democrazia italiana ad essere messa sotto scacco. Perché chi garantisce l’impunità per i fatti del 2001 vuole usare lo spettro di Genova per criminalizzare e colpire le lotte di oggi e quelle di domani.

L’arroganza del potere è anche la dimostrazione della sua debolezza. Non sono riusciti a fermarlo, il movimento di Genova. Ha cambiato pelle, scelto percorsi diversi, ma ha seminato dignità e lotte in ogni angolo della vita civile. È ora che riprenda anche la sua vocazione internazionale, il suo abbattere le frontiere e unire i popoli. Perché davanti alla loro crisi l’umanità ha diritto ad una speranza.

 

L’articolo fa parte di un insieme di contributi pubblicati in un libro di testimonianze sui fatti di Genova 2001 edito da Punto Rosso.