A fianco della sua comunità: la storia di Haleen

9 Dicembre 2021, 13:34

Tra le aride vallate del Nord Est siriano è nata e lavora la psicologa che abbiamo intervistato. La guerra civile, il terrore di Daesh e l’arrivo della pandemia: ci ha raccontato cosa ha significato scegliere di rimanere nella sua terra.

“Essere una figlia della mia comunità significa tante cose. Ha significato rimanere qui, durante la guerra e le crisi più dolorose. So bene quello che ha passato la mia comunità. Perciò quando grazie al mio lavoro spunta un sorriso sul volto di qualcuno, questo non è mai solo un sorriso. È un orgoglio, che porto con me ogni giorno” – racconta Haleen. La psicologa quarantenne lavora ormai da quattro anni in una delle nostre cliniche in Nord Est Siria, proprio vicino a casa sua, nel posto in cui è nata. Prima c’è stata la guerra civile e la terribile occupazione di Daesh, poi i bombardamenti turchi, infine il Covid 19. Sono moltissime le sfide che la donna ha dovuto affrontare in questi anni: “Amo il mio lavoro perché mi permette di occuparmi delle donne e di bambini/e della mia terra. Anche se in realtà ci occupiamo di tutti/e, a prescindere dal genere e dalla fascia d’età”.

 

 

I numerosi conflitti nell’area hanno lasciato tante cicatrici. Alcune sono visibili, mentre altre sono nascoste alla vista: sono i traumi psicologici e la perdita di speranza verso il futuro – “Mancano totalmente le opportunità lavorative” – ci spiega la donna – “alcuni nostri pazienti, oltre ai propri cari, hanno perso case, terreni e fabbriche a causa della guerra”.
Gli sfollamenti continui da un luogo all’altro, anche per brevi periodi, hanno frantumato l’unità delle famiglie e impattato sulla psiche di bambini/e, costretti a cambiare continuamente una scuola dopo l’altra. “Proviamo a supportare i/le minori attraverso sessioni di sostegno psicologico, quando le famiglie sono consenzienti. Facciamo fino a 3 sessioni al giorno dedicate ad adolescenti, bambini/e, donne, uomini, adulti e anziani/e, al fine di alleviare la frustrazione dovuta alla pandemia. Purtroppo la sfida più grande rimane lo stigma sociale associato al supporto psicologico e alla salute mentale, dovuta alla non-conoscenza dell’argomento da parte di tante persone”- ammette la psicologa.
Alcuni/e pazienti infatti si sentono timorosi/e ed esitanti quando gli si chiede del servizio psicologico fornito dal nostro centro. La paura dello stigma e di ricevere incomprensione da parte degli altri è molto forte all’interno della comunità. Le persone preferiscono perciò rivolgersi al supporto “psicosociale”, più che ai servizi psicologici in senso stretto. A tal proposito Haleen ci racconta la storia di Farah, un’altra donna siriana di quarant’anni, del suo stesso paese, arrivata al centro con gravi problemi di stress e ipertensione.

“Stavo tenendo un incontro di gruppo sulla gestione dello stress e le relazioni sane tra genitori e figli, quando è arrivata Farah. Sembrava una donna timida e spaesata, ma piacevolmente stupita dalla discussione a cui stava assistendo. Alla fine dell’incontro mi ha chiesto se fosse possibile tornare nel centro insieme ai suoi figli. Le ho risposto che andava bene e non c’erano problemi, così si è convinta a partecipare”.
Farah decide quindi di unirsi ad una sessione di gruppo sulla “gestione dello stress”, insieme ad altre quattro donne, ma – “all’inizio della sessione era molto esitante e rispetto alle altre donne partecipava meno. Sembrava agitata e prendeva la parola a fatica. A fine sessione le ho spiegato quanto fosse normale sentirsi a disagio, dopotutto era solo la seconda volta che ci incontravamo, rassicurandola che con il passare degli incontri avrebbe acquistato sicurezza”. Effettivamente Farah, sotto lo sguardo benevolo di Haleen, comincia gradualmente a rilassarsi ed inizia a interagire con le altre pazienti. “Con il passare del tempo, ho visto Farah diventare una donna nuova: ora riesce a comunicare con gli altri senza problemi, discute spesso di attualità e dei problemi economici. Durante una sessione di brainstorming un’altra donna le ha proposto di lavorare con lei alla preparazione dei pasti. Farah ha accettato la proposta con entusiasmo. In effetti è davvero un’ottima cuoca, un giorno ci ha portato dei piatti che aveva cucinato per tutte noi: erano buonissimi!”
Farah ha iniziato a praticare le tecniche di gestione dello stress nella sua routine quotidiana e la sua situazione è migliorata. Ormai parla in pubblico senza difficoltà, intrattiene buoni rapporti con i vicini di casa ed è riuscita a fare amicizia con diverse donne. Il tutto grazie ad Haleen, una donna come lei, della sua stessa terra.

Le donne continuano a rappresentare le parte di società più colpita dalle guerre e dai conflitti. Spesso rimangono sole, orfane dei genitori, vedove dei mariti e con tutto il peso della gestione familiare da portare avanti, come spiega la psicologa – ”Alle donne mancano tante cose, a partire dal sostegno economico-alimentare. Spesso rinunciano a mangiare per mettere cibo in tavola per la propria famiglia. Se fossero aiutate economicamente starebbero meglio, anche a livello psicologico”. Un altro punto davvero urgente riguardo alle donne, rimane quello della consapevolezza di sé e dei propri diritti: “Tante donne non escono neanche di casa. Come potranno mai farsi un’idea sul mondo? Come conosceranno i loro diritti? In questi processi è fondamentale il supporto delle nostre operatrici, provenienti dalla nostra comunità (CHWs). É il solo modo per combattere e prevenire i matrimoni precoci, purtroppo ancora molto presenti in questo contesto”.

Con le famiglie spezzate dalla guerra e dagli sfollamenti forzati, un’altro problema grave è quello del lavoro minorile, infatti – “Il numero delle donne vedove è aumentato durante la guerra, spesso sono i bambini ad avere il compito di provvedere alle spese e al cibo delle famiglie. Nonostante molte madri rifiutano l’idea del lavoro minorile, i bambini iniziano a lavorare anche di nascosto”. Nelle aree dove lavoriamo non esiste per questi bambini altro supporto che il nostro centro di cura. “Una delle più grandi sfide da affrontare è la mancanza endemica di centri di sostegno psicologico e di spazi sicuri per bambini/e. Noi facciamo molto, ma non è abbastanza”.
In un contesto così complesso affrontare una pandemia – in una situazione sanitaria disperata e senza strutture adeguate – non ha fatto che peggiorare le condizioni economiche e sociali. Infatti: “Sin dalle prime fasi della diffusione del Covid, c’è stato il panico nella regione. Il numero delle persone bisognose di supporto psicologico è cresciuta costantemente, ma a causa delle regole di allontanamento sociale, le persone che effettivamente usufruivano dei servizi è andata diminuendo. Senza menzionare lo stigma e la vergogna associati ai contagi veri e propri”.
Le persone hanno dovuto indossare guanti e mascherine durante le sessioni, sono stati ridotti il numero dei posti a sedere disponibili durante ogni sessione, in modo da garantire il distanziamento sociale. Continua la psicologa – “All’inizio rispettare le regole di prevenzione è stato difficile, ma con le formazioni e i consigli del team medico tutto è diventato più facile. Avere a che fare con il Covid è diventato quasi normale”. Nonostante le regole stringenti, le sessioni sono tornate a crescere – “grazie alla consapevolezza e allo sforzo fatto dal team di educazione sanitaria (CHWs), le persone conoscono meglio la malattia. Così il panico iniziale si è affievolito. La sensibilizzazione ha funzionato, ci siamo adattati utilizzando gli strumenti a distanza, come i social media e gli spazi online di conversazione e discussione”.

Haleen sembra felice del suo lavoro, ha gli occhi di chi si alza la mattina con una missione importantissima da svolgere, anche se – “il lavoro non è stato sempre semplice. All’inizio ho dovuto affrontare alcune sfide: non avevo un locale dedicato per condurre le sedute e usavo una sala d’attesa della clinica. Ora abbiamo uno spazio preposto al sostegno psicologico e un luogo che preserva la privacy e la dignità di beneficiari/e, affinché le persone possano sentirsi sempre a loro agio mentre sono nel centro”. Haleen spera di essere d’esempio per tante donne che come lei vogliono davvero rendersi utili alla propria comunità – “C’è ancora tanto da fare , abbiamo bisogno di spazi a misura di minore e di un medico specializzato per il trattamento delle malattie psicologiche più gravi. Ma guardate me, ho iniziato in questo centro in una sala d’attesa e ora ho una piccola stanza e uno spazio per fare il mio lavoro. Non ho mai perso la speranza e i miei sforzi sono stati ricompensati”.