“Libano mio, se potessi me ne andrei”

3 Agosto 2022, 17:16

Dal 4 agosto 2020 il Libano non si è rialzato. Mancano acqua potabile, elettricità, si formano code infinite per comprare un po’ di pane. Siamo giunti alla guerra tra poveri. A pochi giorni dal triste anniversario crollano i silos simbolo dell’esplosione in mondovisione, mentre i parenti delle vittime continuano a chiedere verità sullo spaventoso evento.

 

Di Giovanna Gagliardi, Comitato Nazionale di Un Ponte Per

Richard ricorda quel pomeriggio a Beirut con gli occhi sgranati, come se la luce vermiglia che invadeva il cielo della sua città gli fosse visibile tuttora. “Mio fratello ha lasciato l’ufficio pochi minuti prima che il vetro della finestra, ridotto in mille pezzi, piovesse sulla sua postazione. Io, invece, ero a casa. Non ho mai sentito mia madre urlare così forte in tutta la mia vita. Dallo spavento siamo usciti in strada, volevamo andare lontano, in auto, ma guidare era impossibile, schegge volavano per aria e sulle nostre teste incombeva un’immensa sfera arancione.”

Quel 4 agosto 2020, giorno dell’esplosione al porto di Beirut, è stato un punto di non ritorno per molti libanesi, già vessati dalla crisi economica che ha travolto il Paese l’inverno precedente. Per l’80% della popolazione che vive sotto la soglia di povertà, l’accesso ai beni primari è tutt’altro che scontato. La spirale inflazionistica ha trascinato la lira libanese così in basso da richiederne 29.000 per acquistare un dollaro, a fronte di un rapporto di 1.500 a 1 del 2019. “Il pane è caro, l’acqua manca, la corrente manca. Che vita è questa? Se potessi andrei via dal Libano”. Non è raro assistere a rapidi scambi di battute tra sconosciuti, in strada o sul service, dal tenore di un’amara litania sullo status quo.

Nei giorni del grande Eid, la festa del sacrificio a conclusione del pellegrinaggio alla Mecca, la tensione ai forni è sfociata in colluttazioni violente, alla ricerca di un capro espiatorio che giustificasse la scarsità di cereali e il rincaro dei prezzi. A farne le spese sono stati soprattutto i profughi siriani, fuggiti dalla guerra che dal 2011 ne attanaglia il Paese, designati a gran voce dai politici locali come i colpevoli dell’attuale carenza di pane.

Anche i rubinetti nelle case languono. Le infrastrutture per l’approvvigionamento di acqua potabile lasciano a secco gran parte degli abitanti del Libano, costretti a rivolgersi a compagnie private per il riempimento delle cisterne che coronano i tetti degli edifici, elemento diffusissimo del panorama cittadino.

All’ora del tramonto Beirut piomba nel buio. La rete elettrica, connotata da una cronica incapacità di rispondere ai bisogni della popolazione, è collassata una prima volta nell’ottobre 2021, in un blackout lungo 24 ore. Dai campi profughi ai condomini più abbienti della capitale, chi può ricorre in maniera sempre più massiccia ai generatori privati, con costi aggiuntivi che ricadono su una cittadinanza già molto provata.

Nell’oscurità risplendono i bagliori delle fiamme. Presso il sito dell’esplosione del 2020, dei grossi silos contenenti tonnellate di grano, hanno preso fuoco nelle scorse settimane, a causa della calura estiva che batte le strade lungo la costa. Il 31 luglio parte di essi è collassata senza che vigili del fuoco ed esercito fossero riusciti a domare l’incendio. La fisionomia del porto cambia ancora a un passo dall’anniversario di quel 4 agosto di due anni fa, a dispetto di quanto voluto dai parenti delle vittime, che hanno chiesto di preservare i silos in memoria di quel tragico giorno, bloccando i tentativi delle autorità di demolirli per motivi di sicurezza.

“Sono cresciuto ad Ashrafie, al centro di Beirut. Non c’è una famiglia, tra quelle che conosco, che non abbia subito danni dall’esplosione al porto. Non ce n’è una un cui membro non ne sia stato ferito. Prendi me, la mia vita è stata irrimediabilmente colpita. Non vedevo più futuro in Libano.” Per questo Richard ha deciso di trasferirsi a Larnaca, Cipro, un piccolo centro a tre quarti d’ora d’aereo da Beirut, dove grazie ai suoi risparmi ha potuto dare avvio a un’attività commerciale.

Non tutti però hanno le risorse per ricominciare. Nei momenti di sconforto, le voci di imbarcazioni che salpano alla volta dell’Europa corrono di bocca in bocca. “Tariq al bahar”, la via del mare diviene il progetto di chi non riesce a lasciare il Paese in altro modo, di chi è stanco e non vede vie d’uscita.

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