Gli occhi della gioventù irachena sui 20 anni dall’invasione del paese

20 Marzo 2023, 10:16

di Martina Pignatti Morano*

Un mese fa a Baghdad, io e due colleghi di Un Ponte Per stavamo aspettando di incontrare un gruppo di diplomatici in un’ambasciata occidentale, per portare loro le istanze della società civile sulla stabilizzazione post-Daesh.

Abbiamo rifiutato le bottigliette di plastica che ci porgeva una segretaria irachena, perché avevamo le nostre borracce, e lei ci ha risposto: “Fate bene, prima dell’invasione l’Iraq non era invaso dalla plastica come ora” girando le sguardo con astio verso le pareti di quella stanza, in un’ambasciata di cui lei, un attimo prima, sembrava la perfetta e zelante impiegata.

Così, negli incontri che ho fatto nei giorni successivi con giovani attivisti e studenti/esse, ho deciso di fare una domanda anche a chi 20 anni fa non era ancora nato: quella che oggi viene ricordata in Iraq come l’invasione secondo te è stata un’occupazione o una liberazione? La risposta prevalente è stata: entrambe.

Tutti gli attivisti e le attiviste riconoscono che la caduta del regime è stato un bene ma c’è chi – specialmente i giovanissimi, che hanno ancora negli occhi e sulla pelle le emozioni della rivoluzione giovanile degli ultimi 3 anni – pensa che gli iracheni si sarebbero potuti liberare da soli, con una rivoluzione popolare, entro 10 anni. Altri/e sono più pessimisti, pensano che Saddam sarebbe riuscito a reprimere una rivolta interna con la violenza, ma riconoscono che gli Stati Uniti non hanno veramente liberato l’Iraq, semplicemente perché non erano mossi dalla volontà di portare la democrazia.

Nessuno, e dico nessuno, in Iraq crede alla retorica democratica americana.

Sahar, giovane femminista di Baghdad che lavora per la nostra ONG, vede la cosa in prospettiva storica: “Siamo all’interno di un processo di auto-liberazione del popolo iracheno, che è iniziato 20 anni fa ma potrebbe richiederne altri 10; noi continueremo a lottare consapevoli che il futuro è nelle nostre mani”.

Una serie di ragazzi e ragazze ancor più giovani, tra i 16  e i 18 anni, che intervistiamo per selezionare i futuri studenti iracheni dei Collegi del Mondo Unito, è consapevole che il fatto di poter usare tutti i social media sui propri cellulari senza blocchi, è anche risultato dell’influenza americana in Iraq, ma ricorda nel dettaglio i racconti di genitori e nonni sulle feroci violazioni dei diritti umani commesse dagli USA nel 2003 e 2004. La storia dei crimini non si cancella in una generazione.

A Nassiriya incontro un altro attivista che è stato protagonista delle rivolte giovanili di piazza contro la corruzione dei politici, un trentenne che ricorda com’era la scuola prima del 2003: “Eravamo obbligati a seguire l’addestramento militare, Saddam lo voleva anche per fidelizzare i giovani all’esercito, ed è così che ho imparato a combattere anche se amo la letteratura inglese e odio la violenza”. Paradossalmente, l’Iraq disegnato dagli americani gli ha offerto un’unica possibilità per parlare inglese con gli internazionali, a Nassiriya: lavorare in compagnie militari private per le aziende petrolifere occidentali. Ha sviluppato un fisico possente che nasconde un cuore da maestro elementare – il lavoro che fa oggi – e uno spirito da difensore dei diritti umani, che ha messo al servizio della rivoluzione giovanile dal 2019 in poi. E’ stato pugnalato in piazza dai miliziani per difendere i suoi amici, ha dovuto nascondersi per mesi, ma poi è tornato al lavoro con ONG e scuole rurali perché vuole contribuire allo sviluppo dell’Iraq.

Questa è la via per la liberazione dell’Iraq. Sostenere i giovani e le giovani che la percorrono, dal basso, con concretezza e strategia, è una scelta possibile e nonviolenta per rafforzare il legame solidale del mondo con questo meraviglioso paese. E’ la nostra scelta.

 

*Direttrice dei programmi di Un Ponte Per