Dalla Thawra a Tatweer: La societa civile irachena cammina sulle sue gambe
In Iraq questi sono tempi di elevato confitto sociale, come hanno dimostrato le proteste di massa che hanno attraversato il paese nel 2019 in quella che è passata alle cronache come la Thawra Tishreen, la Rivoluzione di ottobre. Una rivolta mossa da una giovane generazione di iracheni e irachene stanche di vivere in un paese attraversato dai conflitti, che non garantisce un futuro, e che si è battuta per costruire le basi di uno Stato democratico e inclusivo.
E’ in questo scenario complesso che il ruolo delle organizzazioni della società civile diventa fondamentale per colmare la distanza tra le comunità e le autorità a livello di base, cercando di creare un cambiamento dal basso e promuovere un dialogo costruttivo, garantendo il rispetto dei diritti umani, sociali e ambientali nonché parità di partecipazione a uomini e donne alla vita comunitaria e politica.
Per essere più efficaci, però, le organizzazioni locali hanno bisogno di sostegno. Per farsi largo tra le maglie di una burocrazia complessa e costruire spazi di agibilità autonomi e orizzontali. Un sostegno esterno che deve essere rispettoso, tuttavia, dei processi culturali e sociali specifici del paese.
Ecco perché il progetto biennale “Tatweer”, finanziato dall’Unione Europea, è stato pensato e realizzato dai nostri colleghi e colleghe irachene. E da loro viene portato avanti, con grandissimi risultati.
“Vogliamo dare alle organizzazioni della società civile irachena la possibilità di avere un impatto nella promozione del diritti umani, civili e ambientali; renderle in grado di rispondere in modo efficace ai bisogni della comunità, e di collaborare in modo fruttuoso con le autorità”, ci spiega Bahman, collega iracheno che incontriamo a Roma, in visita per qualche giorno al nostro quartier generale.
“Le organizzazioni irachene hanno bisogno di aumentare le loro capacità di advocacy, dare adeguato spazio a giovani e donne nella leadership, avere la possibilità di imparare come operare e la disponibilità di spazi in cui incontrarsi e crescere insieme. Con questo obiettivo abbiamo aperto 3 centri: spazi aperti e sicuri per scambi di buone pratiche, incontri, workshop e seminari sui temi del rispetto dei diritti umani, ambientali e di genere”, ci racconta.
I centri oggi sono a Erbil, Basra e Mosul, quest’ultima roccaforte di Daesh in Iraq durante una delle pagine più buie della storia irachena, ed hanno già accompagnato e sostenuto la nascita e il lavoro di oltre 40 piccole organizzazioni locali.
“Il primo centro ad aprire le porte è stato quello di Erbil, nell’estate del 2020, subito dopo la pandemia e il lockdown. Nel febbraio del 2021 abbiamo aperto quello di Mosul, che opera in tutta l’area di Ninive e delle aree liberate da Daesh. Infine quello di Basra, inaugurato nel maggio del 2021”, racconta Bahman.
Sono tanti in campi in cui nel centri si opera per sostenere le organizzazioni. Prima di tutto le consulenze legali: “Abbiamo avvocati/e ed esperti/e che forniscono gratuitamente consulenze specifiche a cooperative, gruppi di volontariato, ong locali, sindacati. Forniamo supporto anche a livello amministrativo e gestionale. Tutto quello che usiamo per le formazioni viene poi reso disponibile online, attraverso una piattaforma, cosicché chiunque possa beneficiarne e migliorare il proprio lavoro. Dopo aver formato i membri delle organizzazioni, li aiutiamo ad accedere a piccoli bandi per rendere sostenibile il loro intervento. Seguiamo tutto il processo: dalla creazione dell’organizzazione locale all’accesso ai fondi fino alla conclusione dei progetti e alle azioni di advocacy”, racconta.
“Il nostro principale obiettivo è sostenere la società civile nella creazione di realtà e strutture che la rappresentino per creare un cambiamento, perché lavorino in modo efficace, trasparente, democratico, nel rispetto dei diritti umani e del lavoro. Da quando abbiamo iniziato, siamo riusciti/e ad accompagnare tante persone”, spiega Bahman con grande soddisfazione.
Fino ad oggi, grazie a “Tatweer” sono stati finanziati 24 micro-progetti. Di questi, 17 avevano a che fare con il rispetto dei diritti umani e con le tematiche ambientali.
Perché in Iraq, oggi, la questione dell’accesso ai diritti resta centrale, soprattutto per la generazione nata dopo l’invasione a guida statunitense del 2003, cresciuta con la promessa di un paese libero e democratico, ma che ancora si trova a combattere contro corruzione, mancanza di lavoro, sfruttamento delle risorse. E con il cambiamento climatico, una piaga che preoccupa i/le giovani iracheni/e in modo particolare.
“L’Iraq oggi è uno dei 5 paesi al mondo più a rischio dal punto di vista ambientale”, riflette Bahman. “Oltre alle conseguenze del cambiamento climatico, che affrontiamo qui come in tutto il mondo, ci sono anche questioni relative al nostro contesto: l’inquinamento, la costruzione delle dighe turche e iraniane che controllano il flusso dei nostri fiumi – il Tigri e l’Eufrate –, la grave siccità che sta interessando il sud del paese, i combustibili fossili che inquinano le falde acquifere, la depredazione del territorio per l’estrazione del petrolio. Siamo estremamente preoccupati/e”, racconta.
E anche a suo parere, dopo il 2003 le sfide per l’Iraq sono state, e restano, moltissime. “Da 20 anni la popolazione irachena tenta di costruire un sistema democratico, ma ci sono ancora molti ostacoli a causa della corruzione, della mancanza di esperienza della classe politica, delle regole di applicazione della Costituzione. Il paese continua a cadere periodicamente in spirali di conflitto a cui si aggiungono le tensioni tribali e tra le comunità. La Thawra del 2019 ha dimostrato che le nuove generazioni vogliono un cambiamento reale. Vogliono uno Stato e un paese di cui poter andare fiere/i. Ecco perché è così importante sostenere le organizzazioni della società civile: perché sono i/le giovani ad animarle, cercando di costruire dal basso quel cambiamento che dall’alto non arriva. Hanno perso fiducia nelle autorità e non vogliono più restare fermi/e ad aspettare: cercano di creare un cambiamento almeno a livello di comunità perché le generazioni che verranno dopo di loro non siano costrette a vivere lo stesso presente”, conclude.