Iraq. 10 anni a fianco delle persone in fuga dal conflitto siriano
Era il 2012 quando noi di Un Ponte Per, da anni già a lavoro in Iraq, iniziavamo il nostro cammino a fianco delle migliaia di persone che all’epoca attraversavano la frontiera con la Siria, in fuga da una guerra che nessuno poteva immaginare sarebbe durata tanto.
All’epoca eravamo tra le poche Ong presenti nel paese, e abbiamo risposto a quell’emergenza andando al confine e orientando le persone in arrivo verso i servizi di assistenza umanitaria che già il governo curdo nel nord del paese stava approntando. Di lì a poco sarebbero stati aperti 10 campi per accogliere le persone rifugiate, nei quali avremmo subito iniziato a lavorare. Prima cercando di capire quali fossero le esigenze delle persone arrivate dalla Siria. Poi, scegliendo di lavorare insieme a loro per garantire sostegno psicologico a chi portava addosso il trauma del conflitto: nell’agosto del 2013 le persone siriane in Iraq erano già 220mila, di cui il 90% rifugiate nel Kurdistan iracheno. Da subito abbiamo capito che l’assistenza psicologica non era considerata una priorità, pur essendo invece una necessità centrale.
Ci racconta questa lunga storia Lia Pastorelli, Program Desk di Un Ponte Per, che ha seguito il programma per molti anni.
“Alla fine del 2012 otteniamo il finanziamento di UNHCR per intervenire in questo ambito, e subito iniziamo a lavorare con il Direttorato della Salute di Dohuk ed Erbil, nel Kurdistan iracheno, per garantire la formazione del personale locale, la distribuzione di medicinali, consulenze singole e di gruppo, assistenza psicologica per bambini e bambine”, ci racconta.
“Lo facciamo grazie alla supervisione del nostro psichiatra, Paolo Feo, che costruisce una formazione specifica per offrire sostegno soprattutto ai/lle minori. Lo staff che lavora insieme a noi è per la gran parte siriano: tantissime persone arrivate dalla Siria avevano una formazione in Psicologia, ma i loro titoli di studio non erano riconosciuti dalle autorità locali. Mettendosi però al servizio delle proprie comunità con la voglia di aiutarle, hanno contribuito in maniera fondamentale al lavoro che abbiamo portato avanti in questi 10 anni. Abbiamo anche capito che l’approccio generale era molto incentrato sulla medicalizzazione: lo staff siriano è stato fondamentale per incentivare una terapia diversa, più basata sul dialogo, che facesse ricorso ai medicinali solo quando strettamente necessario”, spiega Lia.
“C’è stata grande attenzione verso bambini/e e adolescenti, attraverso la supervisione tecnica di personale specializzato e seguendo programmi strutturati da UNHCR. Questo ci ha permesso di basare il nostro lavoro sulle evidenze scientifiche e di apprezzare importanti cambiamenti grazie a sistemi di valutazione e monitoraggio molto precisi”, sottolinea.
Lia ricorda bene che la maggior parte dei problemi riguardava casi di depressione, ansia, stress post-traumatico. Per bambine e bambini invece si registrava enuresi notturna, aggressività, difficoltà di concentrazione. “Tutto questo è stato mitigato grazie a gruppi di resilienza, gioco-terapia, attività di svago pensate per loro”, racconta. “Abbiamo lavorato molto anche sulla formazione degli/lle insegnanti all’interno dei campi, perché riconoscessero i bambini e le bambine che avevano bisogno di un supporto più strutturato”, spiega.
Oggi, le persone rifugiate dalla Siria in Iraq sono oltre 260mila. Il 90% di loro vive nel Kurdistan iracheno: il 40% è ancora nei campi, le altre si sono spostate nelle aree urbane. “Abbiamo lavorato anche nelle città per accompagnare il loro inserimento nel tessuto sociale e garantire accesso alle cure e al sostegno psicologico, un diritto che in tanti/e neanche sapevano di avere”, racconta Lia.
La cosa più bella di questi anni di lavoro è stato toccarne con mano l’impatto positivo. “Il 70% delle persone che hanno usufruito del nostro sostegno sono state donne. Nel corso del tempo abbiamo visto loro e la comunità rifugiata cambiare: hanno capito che la salute mentale è un diritto, che quel supporto non era qualcosa di cui vergognarsi. E abbiamo ricevuto valutazioni sempre molto positive sul nostro intervento”, spiega.
Oltre il 90% delle persone che abbiamo accompagnato in questi anni ha detto infatti di aver avuto un sollievo dei propri sintomi. Sono diminuiti i livelli di ansia e stress, le interazioni tra i/le bambini/e e le loro famiglie sono migliorate, l’aggressività è diminuita. “Resta naturalmente la sfida legata alla condizione di rifugiati, di non sentirsi appartenenti alla comunità ospitante, la mancanza di accesso alle possibilità economiche, che continuano ad avere un impatto importante e resta un’eredità pesante di ogni conflitto”, riconosce Lia.
Ma il risultato più importante, probabilmente, “è stato quello di essere riusciti/e a lavorare per tanti anni con uno staff siriano che non è mai cambiato, senza disperdere le capacità acquisite e basandoci sulle loro competenze. Penso al nostro collega Rashad, laureato in Psicologia a Damasco e fuggito dalla guerra, che desiderava aiutare la sua comunità in ogni modo”, ricorda Lia. “La sua laurea però in Kurdistan non era riconosciuta. Ha lavorato con noi come consulente per anni, e alla fine siamo riusciti/e a far riconoscere il suo titolo di studio da UNHCR. E’ stato un risultato bellissimo per lui, ma anche per noi”.
Nel 2023, poi, il nostro lavoro si è concluso. In 10 anni di cammino, siamo riusciti/e a sostenere 250mila persone, fornendo sostegno psicologico ad altre 23mila.
Insieme a UNHCR abbiamo scelto di trasferire tutto l’intervento ai nostri colleghi e colleghe di “Wchan – Organization for victims of human rights violations”, una Ong locale curdo-irachena, che oggi porta avanti il sostegno alle persone rifugiate. “L’impegno prosegue, ma non serve più il nostro supporto”, racconta Lia con soddisfazione.