La Siria delle donne che lottano per la libertà
In un paese martoriato dal conflitto, schiacciato dal peso di una crisi umanitaria ed economica, donne e bambine devono lottare per conquistare spazi sicuri in cui potersi affermare, abbattendo stereotipi e superando enormi difficoltà.
Di Cecilia Dalla Negra – Communication Manager di Un Ponte Per
Dodici anni di conflitto, oltre 6 milioni di persone sfollate interne, 14 milioni in stato di necessità: sono i numeri di un’emergenza che lentamente scompare dalle cronache, considerata non più tale anche dai donatori internazionali. Sono i numeri di una guerra che prosegue, anche quando sembra che le armi tacciano, lasciando alle sue spalle un tessuto sociale da ricostruire. È la Siria del 2023, in cui nell’ombra e tra molteplici restrizioni continuano a muoversi le donne. Quelle che da sempre, in contesti di conflitto, pagano il prezzo più alto. Quelle che vengono doppiamente oppresse, dalla guerra e da sistemi patriarcali che da quei conflitti vengono solo rafforzati. Ma che non si arrendono, e con determinazione tentano di costruire un futuro libero dalla violenza di genere abbattendo il muro degli stereotipi e dell’oppressione.
La violenza di genere (Gender Based Violence – GBV) continua infatti ad essere una componente centrale della crisi umanitaria siriana, e colpisce in modo persistente la vita di milioni di donne, ragazze, bambine. Una violenza che assume molti volti: dagli abusi fisici ai matrimoni precoci, dallo sfruttamento sessuale all’oppressione sociale, passando per la mancanza di spazi di autodeterminazione, indipendenza economica, libertà di movimento, di studio, per le più piccole anche solo di gioco.
È una Raqqa distrutta, ancora preda delle sue stesse macerie, quella in cui operiamo con i nostri Spazi Sicuri per donne e bambine, anche grazie al sostegno dei fondi Otto per Mille dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai.
Una città “che sta cercando di riprendersi dalla devastazione con tutte le sue forze, ma che è ancora estremamente instabile”, ci racconta Aliya, Coordinatrice del team di Protezione di Un Ponte Per, che da anni lavora per garantire a donne, bambini e bambine luoghi protetti in cui esprimersi, conoscersi, provare a superare insieme i traumi grazie al supporto di team specializzati e al prezioso lavoro dei nostri partner locali.
“Le persone che vivono qui nella maggior parte dei casi non sono originarie di Raqqa, ma hanno alle spalle un vissuto di molteplici sfollamenti”, prosegue Aliya. “Non si sentono a casa, e soprattutto per i/le più piccoli/e è urgente creare spazi sicuri in cui possano vivere liberamente la propria infanzia: andare a scuola, giocare, crescere in sicurezza”, racconta. Anche l’impossibilità di accedere all’educazione o di completare i propri percorsi di studio è una forma di violenza, a cui ragazze e bambine in Siria continuano ad essere sottoposte a causa della guerra: si stima che siano state oltre 2 milioni solo nel 2021 quelle costrette ad abbandonare la scuola.
“Credo che sia un desiderio condiviso ovunque nel mondo quello di vedere i bambini e le bambine avere accesso all’educazione e condurre una vita normale. A Raqqa questo è ancora impossibile. Da quando abbiamo aperto gli Spazi Sicuri 2 anni fa, se ne sono registrati oltre 3mila. E’ stato subito evidente quanto fossero importanti per le famiglie. Cerchiamo di accompagnarli/e nella loro crescita, farli/e giocare, godersi la propria infanzia; dare loro strumenti di cura di base completamente assenti in una vita di conflitto e sfollamento. E nel frattempo cerchiamo di sostenere le famiglie, e le madri in particolare, per capire se le bambine sono esposte a rischio di lavoro minorile o matrimoni precoci, per prevenire la violenza”, continua Aliya.
Le adolescenti e le giovani donne che sono sopravvissute alla guerra affrontano oggi molteplici livelli di violenza e discriminazione, anche in base all’età, al loro stato civile, alle condizioni di sfollamento. Violenze che si consumano tra le mura domestiche, fra le tende dei campi profughi, nei luoghi di lavoro, per strada. Sono donne penalizzate da un sistema sociale che ancora fatica a riconoscere loro un ruolo attivo: hanno meno probabilità di avere accesso al reddito e sono esposte a condizioni economiche estremamente svantaggiate. Anni di conflitto non hanno fatto che esacerbare questa condizione, portando la società a ripiegarsi su se stessa. Eppure, sono spesso proprio queste giovani donne a dover portare sulle spalle il peso di famiglie in cui mariti, padri e fratelli sono morti, sfollati, feriti. Un paradosso che le schiaccia tra la necessità di sopravvivere e la difficoltà di essere accettate come motore di una società che tenta di riprendere in mano il proprio futuro.
“Alle giovani donne viene chiesto di assumersi responsabilità da adulte per via delle necessità familiari, ma allo stesso tempo sono esposte alla violenza di genere a casa come sui luoghi di lavoro. Fornire spazi sicuri in cui possano incontrarsi, parlarsi, creare rete per sostenersi a vicenda, diventa allora fondamentale”, ci spiega Aliya.
Ma difficoltà e discriminazioni sono trasversali, e non risparmiano le donne più anziane. Coloro che si sono viste costrette ad affrontare gli ultimi anni delle proprie vite lontane da case che sono state distrutte, tra le tende dei campi profughi, spesso sole e con problemi di salute da affrontare. Ecco perché, in una prospettiva femminista, la Gender Based Violence (GBV) è da considerare come parte di un sistema più ampio e complesso, cheva oltre l’aspetto umanitario e interroga le condizioni del conflitto tanto quanto le norme sociali e le disparità nelle relazioni di potere. Che opprimono, limitano e controllano la vita di bambine, ragazze e donne. Una rete in cui si intersecano più livelli di vulnerabilità, che è necessario affrontare nel loro complesso.
Rivendicare il proprio diritto ad un’infanzia normale tra le macerie della guerra; essere libere di giocare e imparare; costruire la propria indipendenza economica libere dalla dipendenza maschile o poter accedere alle cure negli ultimi anni della propria vita, diventano allora spazi di autodeterminazione preziosi e necessari, che è fondamentale costruire e difendere.
“Ecco perché continueremo a supportare la società civile che lavora a Raqqa per garantire sostegno alla propria comunità. È questo che vogliamo fare”, afferma Aliya.
“Vogliamo continuare a costruire reti di donne che si sostengano a vicenda nel loro percorso di rafforzamento e autodeterminazione. Vogliamo continuare a fornire opportunità di incontro, spazi sicuri per loro e per i loro bambini e bambine”.