La doppia faccia dell’economia nel Kurdistan

13 Novembre 2015, 12:51

Erbil, 12 novembre 2015. È partita ieri la controffensiva kurda per liberare Sinjar dalla morsa dello Stato Islamico. Con il sostegno aereo della coalizione e i consiglieri militari Usa sul terreno, 7500 peshmerga kurdi (assistiti dagli yazidi residenti) hanno ripreso ieri la strada 47 che collega Mosul a Raqqa. Una conquista fondamentale: si taglia la via di collegamento e rifornimento dell’Isis, si taglia la continuità del sedicente califfato, aprendo a future offensive accanto a quella irachena per Ramadi, in stallo.

In poche ore le forze kurde hanno ripreso tre villaggi, tre colline a nord ovest e un checkpoint, liberando dall’assedio l’80% di Sinjar. Nell’immediato la controffensiva aumenterà il numero di profughi yazidi che già affollano il Kurdistan iracheno da oltre un anno: prima in fuga dall’Isis, ora dalle bombe. Le organizzazioni umanitarie si attendono un altro flusso che incrementerà le tensioni già esistenti.

«Vanno accolti, non possiamo lasciarli morire. Ma questo enorme afflusso di arabi ci porta sul lastrico». È categorico Akhbar, laureato in Economia e disoccupato. Da Sulaimaniya si è trasferito ad Erbil, sperando in un lavoro, ma con l’Isis alle porte e due milioni di rifugiati siriani e iracheni – dice – non se ne trova: «Fino al 2013 vivevamo una stagione d’oro: compagnie straniere investivano in Kurdistan somme ingenti di denaro. Poi è arrivato Daesh e gli affari sono crollati. E Baghdad ci ha tagliato i fondi».

L’atavica frizione con il governo centrale di Baghdad, l’offensiva islamista, l’arrivo di milioni di profughi: la ricetta per la crisi. Così, dopo picchi dell’8% di crescita annua dal 2003 al 2013, oggi Erbil cresce solo dell’1%. Ha costruito campi profughi, spende per l’accoglienza, ha visto scappare turisti e investitori. E i locali lamentano la perdita del lavoro: «Gli arabi, i siriani e gli iracheni da Fallujah, Ramadi, Mosul lavorano a metà prezzo – spiega al manifesto Mahmoun, dalla reception del suo hotel – 300 dollari al mese, quando il salario medio è di 600. Fanno i camerieri, i muratori, lavorano negli alberghi, fanno le pulizie».

«Si ritrovano in punti che chiamiamo “postazioni del lavoro” – ci dice Zardesh Abdulrahman, assistente sociale nel campo di Qushtapa e lui stesso rifugiato – Aspettano i caporali. A volte trovano lavoro per un giorno, altre volte tornano a mani vuote». È il caso di Mohammed, padre di famiglia siriano: dalla tenda dove vive ci racconta delle difficoltà a trovare un lavoro stabile e dell’aiuto di familiari che lavorano ad Erbil e gli procurano impieghi temporanei.

Non tutto è però così nero come sembra: se Erbil tampona la crisi vendendo greggio senza passare per Baghdad e aprendo a decine di compagnie petrolifere straniere, c’è chi dai rifugiati trae profitto: le panetterie vendono pane arabo e incrementano la produzione, i negozi di stufe e ventilatori fanno affari, la diminuzione di turisti è coperta da famiglie benestanti che affittano appartamenti e spendono nel mercato locale.

Dopotutto sono due milioni di persone, il 25% della popolazione. Tanto numerosi che i campi profughi dell’Unhcr non hanno spazio per tutti. È nato così un sottobosco alternativo, fatto di compagnie private (turche e locali) a cui il governo kurdo appalta la costruzione di altri campi, di quartieri nuovi di zecca messi in piedi da privati e che affittano alle famiglie rifugiate che possono permetterselo, di camere d’hotel affittate ai profughi. Un boom che ha fatto aumentare gli affitti del 20%, anche se le condizioni di vita non sono ottimali: «Nei complessi residenziali per i rifugiati, chiusi da reti e cancelli, le case tutte uguali l’una all’altra non sono di qualità, ma fatiscenti – spiega al manifesto Chiara Moroni di Un ponte per… – E nei campi la tipologia e i servizi cambiano a seconda del costruttore e le famiglie vengono distribuite secondo le necessità di chi fa accoglienza. Molti sono stati mandati in luoghi lontani da dove volevano stare. Abbiamo assistito ad un secondo sfollamento che ha provocato nei profughi un senso maggiore di smarrimento».

Per questo Un ponte per… ha avviato una campagna di mass communication volta a mettere in contatto chi accoglie e i rifugiati, una mediazione dove i profughi sono attori attivi, informati e consultati su come organizzare i campi. Un’informazione per conoscere il proprio status, accedere ai servizi, affrontare questioni quotidiane, dalla salute all’educazione alla prevenzione degli incendi, non rari tra le tende di un campo profughi.

Di Chiara Cruciati
Dal Manifesto del 13.11.2015