18. Not before, not forced.

6 Dicembre 2015, 11:25

Un fenomeno diffuso tra rifugiati siriani e sfollati iracheni, su cui da anni le associazioni irachene e curde stanno lavorando. A loro abbiamo deciso di dare il nostro sostegno. Ecco come funziona la nostra campagna.

L’idea della campagna è nata lo scorso anno, “quando abbiamo capito che il matrimonio precoce non era un fenomeno nuovo, dovuto alla condizione di sfollamento che iracheni e rifugiati siriani stanno scontando. Ma qualcosa che in Iraq ha radici profonde, e contro cui la società civile lottava da tempo”.

Chiara Moroni è la Project Manager che ad Erbil, per Un ponte per…, si occupa del Progetto di Mass Communication rivolto alle comunità irachene sfollate. Ha partecipato a decine di riunioni, incontri e dibattiti con le realtà irachene, finché non è stato chiaro che la condizione di sfollamento che in tanti stavano vivendo rischiava di aggravare la situazione.

“E’ stato evidente dopo aver partecipato ad alcuni incontri della Campagna Shahrazad contro la violenza sulle donne, che le attiviste irachene portano avanti da anni. Abbiamo capito che donne e uomini in Iraq e in Kurdistan da tempo si stavano mobilitando contro il matrimonio precoce, certamente con maggiore esperienza rispetto a noi. Abbiamo solo deciso di supportarli”.

E’ iniziato così un lavoro che ha portato alla realizzazione della campagna “18. Not Before. Not Forced”, e che ha prodotto risultati talmente buoni da essere stato richiesto dalla Washington University, che lo proporrà come caso di studio positivo per il lavoro di coordinamento che è stato svolto tra Organizzazioni internazionali e società civile nella realizzazione di una campagna di sensibilizzazione.

Spiega Chiara che “in una prima fase abbiamo parlato con le altre organizzazioni, convincendole ad unire sforzi, competenze, risorse. Ognuno da solo non sarebbe arrivato da nessuna parte: insieme potevamo realizzare qualcosa che durasse nel tempo, collegandoci alla società civile. Volevamo una campagna sostenibile, duratura, spendibile nei prossimi anni in tutto il paese”.

Per elaborarne i contenuti “abbiamo coinvolto esperti locali ed internazionali. Una volta ideato il materiale comunicativo abbiamo voluto ricevere commenti e critiche da Governo, Nazioni Unite, organizzazioni della società civile che erano coinvolte in questa campagna. Abbiamo poi voluto testare il materiale con le tre comunità a cui si sarebbe rivolta: rifugiati siriani, sfollati iracheni, comunità curda ospitante”.

Non a caso il materiale prodotto è in arabo, inglese, curdo sorani (il dialetto parlato ad Erbil) e in curdo badini (il dialetto di Dohuk e il più simile al Kurmanji, parlato dai curdi siriani). “Non volevamo avere solo un parere sui messaggi, ma anche sul coinvolgimento dei rappresentanti delle comunità e, soprattutto, sui disegni utilizzati”, spiega Chiara.

Perché il materiale che viene realizzato nel Progetto di Mass Communication è particolare, e contraddistinto da due elementi. Il primo è la conformità agli standard che Handicap International ha definito per il materiale stampato: deve essere sempre leggibile da tutti, a prescindere dalle disabilità e dalle età. Il secondo è che sia adatto ad ogni pubblico: “Non deve essere solo bello da vedere, ma culturalmente appropriato”, sottolinea Chiara.

E la conferma che andasse bene è arrivata dalle donne delle tre comunità, che dopo un lungo dibattito hanno scelto i disegni dai quali si sentivano più rappresentante.

“C’è stato un lungo confronto sul velo, sui colori dei vestiti, sugli sfondi, sulla rappresentazione delle figure religiose, e molto altro. Dovendo produrre poster, un cartone animato ed un fumetto per bambini era importante che il materiale fosse comprensibile a tutti”, spiega Chiara.

“Il risultato è eccellente da ogni punto di vista. Diffonderemo la campagna in tutto il Kurdistan iracheno e nel resto dell’Iraq, e sarà a disposizione delle attiviste di Shahrazad. Il valore aggiunto è che sarà utilizzabile da chiunque in tutto il paese nei prossimi anni”.

Saranno proprio le attiviste locali, insieme ai rappresentanti di associazioni, organizzazioni, enti istituzionali, a dare il volto alla campagna: “Per evitare che si pensi che la stiamo imponendo. Il lavoro è loro, noi l’abbiamo solo sostenuto”, sottolinea Chiara.

Ufficialmente avviata ad ottobre, la Campagna ha visto lo svolgimento di una serie di attività di sensibilizzazione rivolte a persone in grado di mobilitare le proprie comunità.

Rappresentanti religiosi, avvocati, insegnanti, medici, con cui sono state avviate tavole rotonde per discutere il fenomeno del matrimonio precoce. “Ci basta che se ne parli, che se ne conoscano le conseguenze”, spiega Chiara, che sottolinea come spesso sia sottovalutato “l’impatto emotivo, psicologico, legale, sanitario di una scelta come questa”.

Nelle prossime settimane le iniziative si rivolgeranno principalmente a bambini, giovani, famiglie. “E agli insegnanti, che più stanno a contatto con i bambini e hanno la possibilità di parlarne. Noi rimarremo sempre a disposizione se ce lo chiederanno”.

La nostra idea, da febbraio, ha avuto il sostegno di UNHCR, UNFPA, dei Governi di Dohuk ed Erbil, di 14 Ong locali e internazionali e di una serie di istituzioni e dipartimenti regionali che la supportano e la facilitano.

Al momento, dati precisi sull’impatto del matrimonio precoce nell’area non esistono. Ma si sta lavorando anche per questo. “Siamo consapevoli di quanto sia diffuso il fenomeno. Anche per questo siamo contenti di aver contribuito alla realizzazione della prima Guida di gestione di casi di Child Marriage del Governo del Kurdistan”, sottolinea Chiara.

Che ricorda come il matrimonio precoce sia “una delle declinazioni della violenza di genere, contro cui stiamo lavorando in collaborazione con il DVAW (Directorate of combacting Violence against Women), il Dipartimento governativo incaricato del tema. Insieme stiamo realizzando una grande campagna contro la violenza domestica, spesso legata alle condizioni di matrimonio precoce. I due aspetti purtroppo sono collegati. Impegnarci anche su questo fronte, per noi, è stato doveroso”.