Iraq. Di guerra, diffidenza e ordinaria follia

17 Marzo 2016, 13:53

“Operiamo in un paese che ha visto troppe generazioni conoscere la guerra, conviverci adattandosi a tutto quello che comporta. Ma se degli sforzi vanno fatti, bisognerà cercare di farli in un’ottica di convivenza e accettazione, non di interventi armati e violenza”. Un nuovo racconto del nostro Sergio dal Kurdistan iracheno.

Dokan. Cittadina sulla strada tra Sulaimaniya ed Erbil.

E’ un assolato mercoledì pomeriggio. Attraversiamo il mercato con la macchina.

H. è un po’ nervoso: è stanco, l’ho spremuto parecchio in questi giorni. Ha guidato da solo le 3 ore di viaggio tra le montagne ieri mattina, ha aiutato me, l’autista S. e il nuovo logista S. a scaricare mobili e cartoni che abbiamo trasportato in vista dell’apertura del nuovo ufficio di Un ponte per… a Sulaimaniya, mi ha accompagnato insieme a S. per istituzioni per risolvere le varie problematiche burocratiche del caso, è venuto a fare misurazioni fino ad Arbat Camp, il campo per rifugiati siriani a una ventina di chilometri dalla città, dove il Ponte costruirà un centro di educazione non formale per ragazzi grazie al finanziamento della Cooperazione Italiana.

Oggi stiamo già tornando e si deve fare di nuovo la stessa strada: per ragioni di sicurezza infatti quella che passa da Kirkuk, di fatto un’autostrada che ci farebbe risparmiare un’oretta di tempo e molte curve e salite, è considerata pericolosa.

Troppi tentativi di attentato al check-point prima dell’entrata in città, quando sei fermo, magari in coda, e quindi un bersaglio facile. Qualcuno di questi attentati purtroppo è andato anche a segno. Meglio la montagna allora, anche se più stancante.

Siamo in coda e H. è spazientito: “Perché ho preso la strada del mercato a quest’ora? Lo sapevo che dovevo passare dall’altra parte!”.

Le note dei Gipsy Kings gli fanno riacquistare un poco di buonumore: non ricordo nemmeno come siano finite quattro loro canzoni nel mio lettore MP3, tra Guccini, Roy Paci e i Modena City Ramblers. So che sono sempre la scusa buona per attaccare la mia musica e farmi il viaggio canticchiando.

La vista del Lago di Dokan toglie il fiato: azzurro acceso, contrasta col verdino delle colline che gli fanno da protezione, il verde intenso dei pascoli che si vedono in lontananza e il bianco delle montagne che si stagliano all’orizzonte.

Ci fermiamo a fumare una sigaretta contemplando il panorama: sarà la decima volta che faccio questa strada e tutte le volte penso che questa terra è incredibilmente bella. Potrebbe vivere senza problemi di turismo: conosco un sacco di persone che pagherebbero il volo per venire a farsi 10 giorni di trekking tra i monti, a mangiare kebab e masgouff, il tipico pesce iracheno che in questa zona è considerato tra i più buoni del paese.

Se si aggiungono le decine di pozzi di petrolio su cui è seduto il Kurdistan, suona davvero assurdo che la gente di qui abbia la luce quando va bene per 10 ore al giorno, che senza generatori le notti sarebbero buie e fredde (o caldissime, a seconda della stagione) e che i salari dei dipendenti pubblici, negli ultimi giorni quasi perennemente in sciopero, vengano pagati quando va bene con tre mesi di ritardo, ma più spesso sei.

All’altezza della cittadina di Koya incontriamo l’ennesimo check point: ce ne sono quattro sulla strada che collega Erbil a Sulaimaniya. Sempre la stessa scena: ragazzi giovani, kalashnikov in mano, espressione indurita. A volte ti fermano, ti chiedono i documenti, ti controllano l’automobile. Altre volte basta un “Sarchawa”, letteralmente “tu sei sopra i miei occhi”, una formula di saluto curda che denota rispetto e che spesso è un buon lasciapassare per non perdere dieci minuti a ogni blocco.

Stavolta va male: controllo documenti. E il ragazzo col kalashnokov è poco accomodante. Vede la zona di provenienza di H.: Qaraqosh, vicino a Mosul, quindi si indurisce. Oltretutto H. non parla curdo benissimo e il ragazzo sembra un poco arrogante.

A poco valgono le proteste: “Sono cristiano, leggi il documento” insiste H.: di solito basta per farci ridare i documenti e passare, dato che per i peshmerga, l’esercito curdo che gestisce i check point con la polizia, il timore è quello di trovarsi davanti a cellule di Daesh, che non girano con documenti di identità cristiani. Il ragazzo è visibilmente alle prime esperienze e non ci sente. Stamattina al check point tra Sulaimaniya ed Arbat Camp la scena è stata identica e abbiamo perso venti minuti. H. si innervosisce ancora di più.

Io faccio come al solito, dato che non parlo ne’ curdo ne’ arabo, e assumo la mia espressione da angioletto zitto che lascia parlare chi sa cosa dire e al massimo annuisce sorridendo.Mentre H. si allontana resto in macchina da solo: lo sguardo si riperde nelle montagne.

Ricomincio il mio viaggio mentale sulla potenzialità turistica della zona quando vedo sbucare due occhi vispi e un sorriso in mimetica: un altro ragazzotto, vent’anni al massimo, kalashnikov d’ordinanza a tracolla, sigaretta in bocca.

“American?”, mi domanda.

“Italiano” rispondo titubante, sperando che non sia a conoscenza degli ultimi 30 anni di scellerata politica estera del nostro paese.

“AAAAh Italy? Baggio, Totti, Del Piero, Grosso…”.

Mi snocciola una lista di nomi di calciatori sorridendo come un bambino. Oltre a stupirmi del fatto che affianchi Fabio Grosso a nomi di calciatori molto più conosciuti e forti, che immagino sia entrato nella sua elitaria classifica per il famoso gol contro la Germania nella semifinale dei Mondiali, mi scopro a guardarlo con un misto di divertimento e curiosità: è giovane e allegro, molto diverso dal collega sparito con H..

Davvero tanto giovane per portare addosso un kalashnikov. Troppo giovane per poter portare il peso di scegliere se una situazione sta diventando così rischiosa da doverlo utilizzare.

Mi sono sempre domandato quanto ti cambi la vita impugnare un’arma. Quanto cambino le prospettive. Quanto difficile possa essere decidere di usarla. L’ho sempre immaginata come una sorta di spartiacque, una cosa che ti segna per sempre. Puoi decidere di sparare, di ferire, di uccidere.

È una cosa che ho sempre guardato con timore. Forse è per questa ragione che ho deciso di fare il servizio civile al posto di quello militare.

Mentre mi fa capire di essere tifoso del Barcellona, mimando il rigore di Messi della scorsa settimana, mi prende quasi un senso di tenerezza: io alla sua età Baggio, Totti e Del Piero li andavo a vedere dal vivo a San Siro. E quella era una parte importante della mia spensierata vita da studente universitario.

La guerra la leggevo sui libri, mentre formavo le mie prime idee politiche, il kalashnikov non sapevo nemmeno tanto bene come fosse fatto. E ancora adesso, a quasi 35 anni, lo porterei con una pesantezza estrema. Lui invece lo indossa come io indosso la sciarpa dell’Inter quando vado allo stadio. E pare a suo agio. Trent’anni di guerra ti fanno vivere le età in maniera totalmente differente.

Spero solo che sia conscio di quel che può fare quel pezzo di metallo quando lo usa. H. torna con i documenti e sulle note dei Madness ci riavviamo verso Erbil.

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Questa sera si esce. Domani pomeriggio E., uno dei responsabili di Un ponte per…in Italia, riparte: viene più o meno una volta ogni tre mesi in missione, e l’ultima sera si esce tutti insieme a cena per i saluti.

C’è quasi tutto il team: siamo dieci. Propongono il ristorante assiro, dove si mangia bene e servono birra, cosa che accade in pochi posti ad Erbil: i saluti sono tristi, la birra aiuta a renderli più allegri. L’atmosfera è rilassata, c’è voglia di divertirsi: è stata una settimana di lavoro intenso per tutti e non capita sempre di uscire tutti insieme.

Individuiamo un tavolo, stiamo per sederci. Arrivano i camerieri. Confabulano con R., il rappresentante di Un ponte per.. in Iraq, che in questo ristorante è di casa. Parlano fitto, l’atmosfera cambia.

Dobbiamo uscire. Chiediamo perché. R., responsabile del monitoraggio di uno dei progetti, non può rimanere. È musulmano. E il ristorante è un club privato, dove solo i cristiani possono rimanere. Anche H., amministratore, ha problemi: è arabo. Il fatto che sia ateo e che non faccia nessuna differenza di religione nella vita di tutti i giorni, condividendo scrivania, problemi e battute con cristiani, agnostici, ezidi e atei, non cambia la sua posizione.

O entriamo senza di loro o ce ne andiamo tutti.

Mentre scegliamo un altro posto dove festeggiare mi metto a pensare a come ci si deve sentire quando la tua origine ti impedisce di entrare in un locale. Quando la tua religione ti costringe a far cambiare a un gruppo la meta della propria serata: cambiare locale è una cosa banale, non è certo un problema, ma farlo nel tuo paese, nella città dove vivi da anni, può diventare umiliante.

Per fortuna sia R. che H. se ne dimenticano in fretta, la serata procede allegramente, ma la sensazione di amaro in bocca rimane. Al tempo stesso sarebbe facile banalizzare, gettare la croce addosso a chi ha dovuto abbandonare la propria casa, il proprio lavoro, la propria vita, chi ha perso un parente, un amico, un conoscente, e per questo fa fatica a non fare distinzioni.

Odio? Vendetta? Forse. Finché queste cose non ti toccano direttamente è facile mantenere l’imparzialità, la mente lucida. Ma dietro questi episodi ci sono uomini, con i loro sentimenti, le loro sensazioni, le loro debolezze.

La storia di questo paese è complessa: trent’anni di guerra. Di violenza. Di ritorsioni. La sensazione che ho ogni volta che parlo con qualcuno è che ognuno abbia le proprie ragioni, i propri episodi negativi, i propri torti da rivendicare. O peggio ancora da vendicare. E spesso la soluzione più semplice appare quella di prendere una delle parti. Il rischio però è quello di alimentare questo meccanismo all’infinito. E che le persone continuino a soffrire.

Per fortuna il cibo aiuta a vincere le differenze e a ricreare un’atmosfera di serenità. La serata scivola via con leggerezza. Nonostante l’amaro in bocca rimanga sempre li.

E qualcosa, guardando le facce sedute al tavolo, mi dice che non sono l’unico a sentire questo sapore.

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Il sabato a Erbil è come la domenica in Italia: è l’ultimo giorno di week end, dato che il venerdì è festa e la domenica si ricomincia la settimana di lavoro.Di solito se si decide di uscire la sera, per staccare un po’ la testa dalle tensioni lavorative di tutti i giorni, lo si fa il giovedì o il venerdì. Il sabato è per cucinare con calma a casa o guardarsi un film.

Ma quando N., logista di Un ponte per… da anni, ci chiama alle tre del pomeriggio per invitarci a matrimonio di una cugina, io e G. non ci pensiamo un attimo: nessuno dei due ha mai visto un matrimonio in Iraq e l’occasione è troppo allettante per lasciarsi intimorire dal cominciare la settimana qualche ora di sonno in meno.

N. è una delle persone a cui sono più affezionato da quando ho iniziato a collaborare con Un ponte per…: ho conosciuto sua moglie, sua madre, i suoi figli. Ho mangiato a casa sua due volte. È sempre molto gentile con gli occidentali che capitano da queste parti e cerca sempre di essere ospitale.

Alle otto entriamo nel locale che ospita la festa, un altro club in cui musulmani e arabi non entrerebbero facilmente.Siamo al centro dell’attenzione ovviamente, dato che non è comune che due europei partecipino a simili cerimonie: entriamo in almeno quindici foto diverse e la telecamera che registra il video-ricordo è spesso puntata su di noi, ovviamente imbarazzati.

Musica e balli prendono il sopravvento, la gente mangia, beve e scherza, gli sposi sono seduti su un palco e gli amici si sbizzarriscono in scherzi e danze.L’atmosfera è così allegra che ci facciamo coinvolgere subito nei balli di gruppo, che si alternano alle portate di cibo.

Tutto sembra scorrere via con serenità, fino a quando le note di una canzone virano su una melodia lenta e triste. Il silenzio cala. Le tavolate si fermano. La voce del cantante diventa struggente. Chiediamo a N. che cosa stia succedendo: quando si gira vedo gli occhi umidi, la voce gli si strozza in gola.

“È una canzone che parla di Qaraqosh”, spiega col suo buffo italiano, “la nostra città”.

Qaraqosh, città cristiana molto vicina a Mosul, conquistata da Daesh nell’agosto del 2014.

“Tutti quelli che vedi qui dentro sono di quella zona. Tutti sono scappati l’8 agosto. Dal giorno alla notte tutto è cambiato ed è iniziato l’incubo”.

Vite normali, alcune dignitose, molte agiate. Spazzate via dalla follia della violenza.

“Dal giorno alla notte” mi risuonerà in testa parecchie volte nei giorni successivi. Li ho sentiti spesso i racconti di chi l’ha vissuto, di chi è scappato lasciando case, soldi, documenti. Una fuga improvvisa, con la famiglia, per salvare la vita dei propri cari e la propria.

Mi guardo attorno: la mamma di N. si nasconde il viso col velo, molti uomini piangono, i ragazzi si fanno seri.Quella stessa stanza che fino a due minuti prima risultava colorata e piena di vita ora trasuda disperazione.Dura cinque minuti. Il tempo di versare le lacrime che si hanno ancora in corpo.

Poi ricomincia la festa. Un po’ meno allegra, un po’ più sofferta. Ma la musica, di nuovo ritmata, aiuta a dimenticarsi per un po’ della situazione.

Uno dei due figli di N. si avvicina alla madre: ha quattro anni, l’ho già visto diverse volte, ha una faccia simpatica e furba, è sempre in perenne movimento, pieno di vita e di energia.

Armeggia con un giocattolo nero, che sventaglia a destra e sinistra: al primo momento non lo riconosco, poi me ne rendo conto. Un piccolo mitra giocattolo, come se ne vedono tanti in giro anche alle nostre latitudini.

Spara a tutte le tavolate, giocando a una guerra immaginaria cui all’inizio non do grande peso, catalogandola come un “gioco da bambino” abbastanza comune e diffuso.

Quel che mi colpisce sono le parole che riporta N. poco dopo, mentre il piccolo è sulle sue ginocchia: “Ha detto che vuole usarlo quando torna a Qaraqosh: vuole tornare e sparare a tutti così potrà riprendersi la sua bicicletta da Daesh”.

Una frase innocente. Che però, non so perché, mi fa tornare l’amaro in bocca.

Operiamo in un paese che ha visto troppe generazioni conoscere la guerra, conviverci adattandosi a tutto quello che comporta: che abbiano 20 anni, 4 o 50, che usino kalashnikov veri o mitra finti, qualsiasi sia la loro appartenenza religiosa, etnica o politica, l’importanza del dialogo è stata ormai smarrita. E da un certo punto di vista compromessa: c’è sempre una ragione, un episodio, un precedente.

Non sarà facile ricominciare a comunicare e a fidarsi gli uni degli altri.

E per chi viene “da fuori” sarà sempre tutto più semplice: parole come pace e liberazione suonano beffarde a chi opera ogni giorno sul campo ed entra in contatto con la situazione reale, che è talmente complessa e articolata che persino farsi un’idea precisa diventa complicato, figuriamoci offrire le giuste soluzioni.

Ma se degli sforzi vanno fatti, bisognerà cercare di farli in un’ottica di convivenza e accettazione, non di interventi armati e violenza. Altrimenti diffidenza e odio rimarranno la base di questo paese.

E a pagare le conseguenze ci saranno sempre le persone, vittime di un sistema ormai fortemente radicato e tremendamente più grande di loro.

Sergio Dalla Ca’ di Dio – Project manager di Un ponte per…