Lesbo. Immaginando un’altra Europa

23 Marzo 2016, 15:13

Una nuova pagina di diario dai nostri volontari sull’isola di Lesbo. Dove i campi si sono svuotati, e sono iniziati i rimpatri forzati verso la Turchia.

 

Sveglia alle 7 e partenza verso i magazzini.

Incontriamo la Grecia, l’Irlanda, La Spagna, la Repubblica Ceca, gli Stati Uniti negli sguardi dei volontari che ci corrono incontro felici di poter contare anche sul nostro impegno.

Tanta la voglia di aiutare in quelle montagne di indumenti che aspettano di essere di nuovo utili perché a Lesbo è ciò che avviene. Un vecchio calzino riprende vita in un piccolo siriano. Una sciarpa colorata si trasforma in uno hijab e la maglietta del Manchester la divisa di un giovane afgano.

Lavoriamo per ore insieme e per capirci non serve conoscere l’inglese perché le affinità prendono il sopravvento ed i nostri sguardi si incrociano attraversando quegli spazi immaginando un’altra Europa.

Accatastiamo, dividiamo e cataloghiamo. Soddisfatti lasciamo i magazzini consapevoli di aver dato il massimo; a conferma di ciò il sorprendente e piacevole episodio di due simpatiche volontarie spagnole che giunte in fretta e furia cercano abiti per una neonata arrivata con il papà al campo di Pikpa (uno dei centri per rifugiati gestito da volontari indipendenti) senza la mamma bloccata in Turchia. Ci diamo appuntamento per la mattina successiva perché nel pomeriggio l’emergenza si sposta al porto.

Arriviamo alle 17 e nel momento stesso in cui iniziamo ad aiutare e ci guardiamo intorno ci rendiamo subito conto che decine di volontari non sono sufficienti a risolvere il dramma di una guerra.

Bambini ancora a piedi nudi, donne senza cappotti, giovani ragazze che si avvicinano timide alla ricerca di un supporto per la propria igiene intima. La vita racchiusa in qualche busta ed un piccolo zaino. Non ridono, non hanno voglia di scherzare ma ringraziano perché ogni piccolo gesto ai loro occhi è un dono inestimabile.

I bambini, invece, nonostante tutto, corrono, ridono, mangiano dolciumi e indossano un sorriso.

Ore 20 la partenza per Atene. Un’altra tappa verso la serenità.

L’Europa di Tsipras non è poi così diversa dalle frontiere chiuse che obbligano migranti e profughi ad attendere. Costretta ad accogliere a causa del suo splendido mare che non accetta cancelli, sceglie la linea dell’assenza istituzionale e della presenza di esercito e forze di polizia che vivono con fastidio i volontari che battono le strade dell’isola.

E’ buio, si torna a casa e la sveglia è pronta per le 5. Inizia il nostro nuovo giorno in spiaggia aspettando gli sbarchi. E intanto l’Europa offre miliardi di euro per non vederne più.

Sveglia alle 5 per raggiungere i gruppi di controllo delle spiagge. Diluvia. Inutile andare perché i migranti non arriveranno visto che con il maltempo i rischi aumentano.

Non bastano gli assalti della polizia turca, anche il mare in tempesta. Sì, avete capito bene. Ho parlato di assalti dei turchi perché è proprio quello che ci racconta un giovane migrante.

I turchi intercettano i gommoni e se serve spaccano i motori delle imbarcazioni stracolme di migrantio peggio, si avvicinano con le barche con il solo fine di arrecare ulteriori danni. Del resto il patto con Erdogan è questo. L’Europa paga e i migranti non debbono attraversare il mare.

Decidiamo quindi di aspettare qualche ora per ritornare ai magazzini poiché là il lavoro non manca, mentre mancano volontari visto che non piace a nessuno passare ore ed ore a catalogare e smistare montagne di vestiti. Nessuno ti vede, non hai contatti con i migranti e la visibilità non esiste. Per questo Un ponte per… ha garantito agli organizzatori dei magazzini la presenza dei suoi volontari.

Durante il lavoro ad un certo punto i nostri occhi incrociano gli occhi di due giovani mamme siriane. Hanno in braccio due piccoli fagottini di pochi mesi e ci sono anche i loro giovani mariti. Sono fortunati perché sono insieme ed anche per noi è una buona giornata:con loro possiamo dare il meglio di noi.

Troviamo tutine per i più piccoli, cappellini, maglioni per le giovani mamme e giacconi per i papà. Vengono da Homs, sono provati ma vogliono andare avanti.

Non sanno dell’accordo Ue/Turchia e vogliono arrivare nel Nord Europa. Inutile parlar loro delle scelte europee, non ci crederebbero. Li aiutiamo e ci sorridono.

Dopo pranzo decidiamo di visitare il Campo di “Afghan Hill” che in questi giorni ospita centinaia di migranti. Pakistani, marocchini, algerini, afgani, tutti quelli che non hanno possibilità di accedere alla registrazione.

Diversi mesi fa si sono organizzati occupando un uliveto ed i volontari indipendenti venuti ad aiutarli hanno trattato un affitto per il terreno. Hanno organizzato un campo dove si può mangiare, avere vestiti puliti, ma non ci si può lavare. Del resto a chi può interessare tutto ciò se non al gruppo di indipendenti?

C’è anche uno spazio adibito ai giochi con i bimbi ma mancano i nomi famosi delle potenti Ong che diramano comunicati stampa sulle condizioni dei migranti. Loro sono altrove. Pochi metri più avanti nell’Hot spot e nel campo dedicato esclusivamente ai siriani. Li non è possibile entrare né tantomeno fotografare. Sono impenetrabili. L’Hot spot, circondato da filo spinato, ricorda il confine ungherese.

Essere accolti dai volontari indipendenti ad “Afghan Hill” e passare davanti all’Hot spot offre la dimensione di quanto sta avvenendo ai migranti.

Da una parte forze di polizia, Frontex e l’immobilismo delle grandi Ong. Dall’altra i popoli d’Europa e i popoli erranti.

Alessandra Aldini e Arianna Torre – UIL