Voci dal Newroz

27 Aprile 2016, 10:54

Il 17 marzo 2015 partivo per una missione di osservazione internazionale nel Kurdistan turco per le celebrazioni del Newroz. Il Newroz è il giorno d’inizio della primavera, capodanno del calendario curdo, data di festa per il popolo curdo, ma anche quella in cui si ricordano le forme di resistenza alla repressione e alle persecuzioni di quello stesso popolo.

In passato, più volte i festeggiamenti sono stati vietati dalle autorità provocando morti e feriti, e gli organizzatori sono stati arrestati e perseguiti.

La nostra partecipazione aveva una forte valenza: sarebbe servita a capire gli sforzi e i progressi per la risoluzione della questione curda, oltre che un’opportunità e una necessità per comprendere le difficoltà di vita quotidiana della popolazione di città e villaggi curdi, o almeno così avevo letto sul modulo di partecipazione.
Sebbene quindi lo scopo della missione fosse chiaro così come il programma, avevo comunque la sensazione che fosse uno di quei viaggi da cui non sapevo cosa aspettarmi.
Quando siamo arrivati a Sanliurfa, nella Turchia sud-orientale, era già sera tardi: il tempo di una cena, due chiacchiere per familiarizzare con compagni fino ad allora sconosciuti, capire come saremmo stati divisi in gruppi, poi a letto.

Il primo giorno è iniziato con una sveglia all’alba. Complici irrequietezza e muezzin, il cui minareto salutava la nostra finestra. Giornata di sole per il mio gruppo – “Urfa 1” – dedicata agli incontri con la società civile.
Il primo con l’associazione Insan Halari Dernegi, che si occupa di diritti umani, ha sede centrale a Ankara ed è presente nel resto della Turchia con 38 sedi. É costituita da volontari con diverse professionalità ed ha iniziato la propria attività negli anni ’80, quando omicidi sommari e sparizioni erano parte del quotidiano per il popolo curdo. In quegli stessi anni più di 300 attivisti della stessa associazione sono stati vittime della repressione.

Attualmente la preparazione per le elezioni politiche a giugno e il procedere dei negoziati di pace sembrano avere prodotto una diminuzione della tensione, anche se di fatto le violazioni dei diritti umani non si arrestano, soprattutto durante le custodie cautelari. Inoltre ad ottobre scorso, durante l’assedio di Kobane, ci sono stati 50 morti, tra cui 7 bambini, in occasione delle manifestazioni nel Kurdistan turco.

Le conquiste ottenute con la resistenza del popolo curdo non mancano: oggi è finalmente possibile utilizzare in pubblico la lingua curda o ascoltare musica curda, aspetti da non sottovalutare considerato che erano motivi sufficienti per l’arresto fino a poco tempo fa. Ma l’obiettivo principale continua ad essere il riconoscimento delle violazioni e del genocidio a livello internazionale.

Nel pomeriggio incontriamo i rappresentanti dell’HDP (Partito Democratico del Popolo) e del DBP (Partito Democratico Regionale), i cui rappresentanti ci spiegano che le loro organizzazioni si stanno mobilitando per le prossime elezioni che si terranno a giugno 2015.

Il DBP è il principale partito curdo, cui appartengono molti sindaci e amministratori nel Kurdistan turco, ed il suo nome attuale è il frutto dell’ennesimo cambiamento dovuto alla repressione e ai ripetuti scioglimenti che hanno portato ad una nuova riorganizzazione. La sua azione non si limita a rivolgersi al popolo curdo, ma insieme ad associazioni e partiti della sinistra turca ed esponenti delle minoranze etniche, linguistiche e religiose della Turchia (arabi, armeni, ezidi, alawiti…) ha costituito la coalizione HDP, diffusa in tutta la Turchia. L’obiettivo è il superamento della soglia del 10% alle prossime elezioni per la costruzione di un paese democratico e plurale.

Il secondo giorno partecipiamo alla celebrazione del Newroz nella città di Urfa.
Un ampio spazio pubblico, un grande palco sul fondo, musica, interventi e comizi, la gente che balla con i colorati vestiti tradizionali, bancarelle all’interno e all’esterno dell’area vendono cibo, sciarpe con i colori del Kurdistan. Mi ricorda un festival, una sagra, una delle vecchie feste dell’Unità, se non fosse che l’area è tutta recintata con filo spinato. Non ci sono vie di fuga alternative a quella di ingresso, cui si accede solo attraverso i cancelli controllati dalla polizia che somigliano ai tornelli degli stadi. Veniamo perquisiti approfonditamente, ci chiedono perché siamo lì, qualcuno viene portato in disparte e gli vengono requisiti i giornali comprati all’esterno. La festa ad Urfa finisce senza scontri, sebbene ce ne siano stati in altre città.

Il terzo giorno, il 20 marzo, ci riceve la municipalità di Viransehir, antica città della Mesopotamia in cui si sono avuti alcuni tra i primi insediamenti umani. Veniamo accolti dal sindaco e dalla sindaca, che con grande disponibilità condividono con noi il difficile percorso del popolo curdo per la propria autodeterminazione.
I curdi hanno iniziato a fare politica formalmente negli anni 90. Nel ’99, dopo che in molti comuni sono stati eletti sindaci curdi, sono stati fatti molti arresti tra cui anche lo stesso sindaco di Viransehir.
Attualmente ci sono 102 comuni guidati da rappresentanti curdi e sono stati eletti alcuni parlamentari europei. Il sindaco sottolinea che il Kurdistan è considerato spesso politicamente arretrato, in realtà ciò che è stato proposto anche in Rojava può avere molto da insegnare alle democrazie europee. Come ad esempio la compresenza dei generi nei quadri delle associazioni e nei partiti: l’assetto che viene proposto si oppone al sistema patriarcale e feudale, nel rispetto di tutte le differenze. L’Europa, a loro parere, deve riuscire a comprendere che gli interventi della società civile curda servono alla difesa di tutti, anche all’Occidente.

Il campo profughi di Viransehir si trova fuori dalla città, in un’area che prima ospitava molte famiglie ezide. E’ finanziato dalla municipalità ed è gestito da due insegnanti. Attualmente accoglie 150 persone di origine ezida fuggite da Shengal.
Nel campo viene offerta formazione in lingua curda per i bambini e i ragazzi presenti, oltre al sostegno psicologico e ad attività extra-scolastiche. Sebbene sia stata la municipalità ad avere allestito il campo, la popolazione ha sostenuto e continua a sostenerne il lavoro attraverso varie attività. Vale qui la pena ricordare che esistono nell’area 6 campi profughi gestiti dalle municipalità ed uno dalla Protezione civile turca in collaborazione con UNHCR. Quest’ultimo ha una disponibilità di 15.000 posti ma è occupato solo per un terzo delle sue potenzialità, perché i profughi, sebbene i campi delle municipalità curde abbiano standard inferiori, li preferiscono perché in quegli spazi si sentono liberi.

Fa freddo, le donne ci invitano in una tenda ad ascoltare e condividere le loro storie e i loro traumi in seguito alla fuga per l’arrivo di Daesh. Provo ad immaginare me stessa a trascorrere l’inverno in quella stessa situazione – e non parlo del dramma umano e psicologico, mi limito a pensare al freddo e all’umido – mentre stringo fra le mani l’immancabile chai e mi preoccupo di mettermi il più vicino possibile ad una stufa. Molte di loro hanno assistito a violenze, stupri, decapitazioni e rapimenti. Lo raccontano perché – dicono – nessuno parla di Shengal, si ha l’impressione che i racconti nascano dal bisogno di non sentirsi sole. Ci parlano di 8000 donne rapite, di cui 1000 ancora nelle mani di Daesh. Chiedono di portare le loro storie in Europa per non essere dimenticate, affinché non si aggiunga altra sofferenza al dolore di un popolo vittima di oltre 70 massacri nel corso della storia, e che adesso non riesce più ad immaginare un futuro.

È ormai già pomeriggio inoltrato: lasciamo il campo e andiamo verso la Casa delle Donne, uno spazio curatissimo, rinnovato, con locali per varie attività. Alcuni compagni mi fanno notare un opuscolo: serve per l’educazione sessuale, ci sono disegni e fumetti che spiegano nel dettaglio, si insegna la contraccezione e non solo, e mi chiedo se nelle nostre scuole superiori fosse distribuito un opuscolo simile come la prenderebbero i genitori.

Il quarto giorno la delegazione di Urfa si divide, alcuni di noi andranno al Newroz di Ahmed, altri, tra cui io, andranno al confine tentando di entrare a Kobane.
La giornata è bruttissima, piove ed è freddo. Arrivati a Suruc, dopo un po’ di attesa ci confermano che a nessuno è data l’autorizzazione all’ingresso. Andiamo comunque al confine, non si vede niente, continua a piovere ed è tutto avvolto nella nebbia. I militari ci intimano di girare e tornare indietro. Tornati a Suruc concordiamo che non resta che produrre un comunicato stampa per diffondere quanto più possibile la conoscenza della situazione.

La delegazione italiana della missione di osservatori internazionali per il Newroz in Kurdistan, che aveva con sé un carico di farmaci, oggi (21.03.2015) è stata bloccata al confine turco tra Suruç e Kobanê nonostante avesse richiesto l’autorizzazione alle autorità turche. Suruç ospita 6 campi profughi autogestiti dalla municipalità e 1 gestito dal governo turco per un totale di almeno 15.000 persone. Prima della liberazione di Kobanê il numero dei profughi era circa il doppio: le persone vogliono tornare alle loro case e poterle ricostruire dopo la distruzione della città da parte dell’ISIS.
Abbiamo constato personalmente, arrivando al confine, che ogni varco verso Kobanê è chiuso: non possono passare né gli aiuti umanitari né i materiali per la ricostruzione e il ritorno dei profughi è reso difficile da pratiche burocratiche discrezionali. La stessa municipalità di Suruç chiede da ottobre che venga aperto un corridoio umanitario che garantisca il passaggio di tutti gli aiuti necessari per la città e il cantone. A Kobanê in questo momento mancano acqua, fognature e impianti elettrici e il territorio della città è stato minato dall’ISIS durante la ritirata: è evidente la necessità immediata dell’apertura di un corridoio umanitario permanente.
Delegazione Italiana a Urfa

Il quinto giorno torniamo a Suruc e incontriamo la municipalità, proviamo ancora una volta, invano, ad avere i permessi per entrare. Il tempo, oggi più clemente, ci permette una visita dei villaggi al confine. A Misanter, poche decine di case tra cui pascolano animali e giocano ragazzini, visitiamo un minuscolo museo, un memoriale dedicato ai caduti del YPG e del YPJ. Veniamo invitati e accolti nelle case dagli abitanti che vogliono raccontare. Raccontano la violenza, la partecipazione delle persone comuni agli aiuti e di come l’esercito turco aiutasse i combattenti di Daesh, curandoli nei propri ospedali di frontiera e lasciando morire decine di combattenti curdi nelle auto e nelle ambulanze.

Torniamo anche sulla linea di confine, poco lontano da noi c’è Kobane, oggi possiamo vederla bene, niente pioggia, niente nebbia, solo un bellissimo sole. Qualcuno ha un binocolo, ci avvicina ai mucchi di macerie, ai palazzi sventrati, alle bandiere del YPG. Mi torna alla mente un’immagine vista poco prima nel memoriale: un disegno, due combattenti, un uomo ed una donna, casacche verdi, fucili in spalla, due colombe in braccio e sotto queste parole:

TAKE YOUR DARK FLAG AWAY
WE WILL STAY HERE

di Rebekka Mazzantini, volontaria e socia di Un ponte per…
Testimonianza dalla Delegazione Italiana a Urfa
Foto in home page di Maria Novella De Luca