Covid-19. Cosa succede in Libano?

9 Aprile 2020, 18:44

Prosegue il nostro lavoro di aggiornamento sulla situazione del contagio da Covid-19 nei paesi in cui operiamo. Oggi ci occupiamo del Libano, dove lavoriamo dal 1997 a fianco della popolazione rifugiata palestinese e siriana. Qui, tra default economico e crisi del sistema sanitario, la situazione rischia il collasso. E il popolo palestinese, ancora una volta, non è contemplato nelle azioni di governo. Ci racconta la situazione David Ruggini, Capo ufficio di Un Ponte Per a Beirut.

In Libano, dal 20 febbraio in poi si sono segnalati diversi casi di contagio sul territorio e progressivamente il governo libanese ha preso delle misure prima di contenimento – essendoci una casistica principalmente di importazione, soprattutto dall’Iran – e in un secondo momento di limitazione della diffusione locale.

Il provvedimento che ci ha interessato maggiormente è stato quello del 28 febbraio scorso, con cui il ministro dell’Educazione ha deciso di sospendere le attività educative.

I nostri progetti nel paese sono principalmente concentrati nel settore dell’educazione, per garantire il diritto allo studio a bambine e bambini rifugiati palestinesi e siro-palestinesi: di conseguenza, tutte le nostre attività sono state sospese.

Progressivamente tutti i nostri partner locali hanno sospeso le proprie attività sul territorio e chiuso temporaneamente i loro Centri. In particolare Beit Atfal Assumoud, che si occupa di bambine e bambini palestinesi nei campi, ha sospeso le sue attività educative in tutti i Centri, che restano attivi solo per garantire alcune consultazioni tra operatori/trici sociali e le famiglie e per svolgere sessioni di informazione sui rischi connessi al Covid-19.

Data l’incertezza della situazione, i nostri amici e amiche non hanno voluto che ci recassimo sin dai primi giorni di emergenza nel campo di Bourj el Shemali (Tiro) per continuare un lavoro di riprese e testimonianze che stavamo raccogliendo per i sostenitori e le sostenitrici del nostro programma di Sostegni a Distanza.

L’associazione Amel invece ha chiuso il Centro dove si svolgevano le nostre classi di sostegno e recupero per bambini e bambini rifugiati/e. Il progetto educativo era stato recentemente rinnovato per 4 anni, ma le attività sono al momento sospese fino a data da destinarsi.

In Libano uno dei nostri progetti più importanti era quello legato alla presenza dei nostri Corpi Civili di Pace: 6 giovani impegnate/i sul campo che portavano avanti un prezioso lavoro di peacebuilding e coesione sociale. Quando la diffusione del virus si è intensificata, hanno iniziato a lavorare da casa. Abbiamo sostenuto la situazione fin quando è stato possibile, in regime di auto-isolamento. Ma dal 9 marzo le condizioni generali sono progressivamente peggiorate: in molte zone si sono registrati casi senza che fosse possibile rintracciare l’origine del contagio.

Data la progressiva diffusione del virus, il governo libanese ha deciso di mettere in pratica ulteriori misure ristrettive dalla sera di mercoledì 11 marzo, comunicando la sospensione di tutti i voli da e per l’Italia e l’Europa, oltre a Cina, Iran e Corea.

La chiusura dell’aeroporto di Beirut ci ha costretto a prendere una decisione difficile. L’opzione di restare a Beirut infatti presentava il rischio di non poter ricevere assistenza nel caso di infezione, combinata all’impossibilità di operare da parte nostra ormai da giorni. Questo ci ha imposto di rientrare in Italia il 15 marzo.

Dal giorno seguente ci siamo attrezzati/e con tutti i nostri partner locali per portare avanti quanto più possibile il nostro lavoro da remoto con creatività, nell’attesa di poter tornare a operare sul campo appena possibile.

Siamo in contatto costante con le maestre nei campi palestinesi, che distribuiscono agli/alle studenti presso le loro case i materiali utili a mantenere la didattica. Materiali che stiamo insieme sviluppando anche con il prezioso contributo del Gruppo Educazione di UPP operativo in Italia.

Per quanto riguarda la situazione nel paese e la diffusione del Covid-19, il governo ha stabilito la chiusura di tutte le attività non essenziali e ha chiuso i confini. Ha chiesto inoltre che sia l’esercito a gestire l’ordine pubblico e che siano i militari a far rispettare il lockdown a tutti/e i/le cittadini/e.

Un’epidemia, questa, che è andata a sommarsi ad una situazione già al limite: il governo libanese è infatti ufficialmente in default, e solo il Fondo Monetario Internazionale sembra intenzionato ad autorizzare prestiti, gettando un’ombra di grande incertezza per quanto riguarda l’approvvigionamento di materiali medici. Presto, secondo le stime del governo e del FMI, circa il 40% della popolazione libanese rischia di vivere sotto la soglia di povertà.

Un allarme rilanciato in queste ore anche da Human Rights Watch, in un rapporto che mette in guardia sulle misure intraprese dal governo.

Anche in Libano il virus ha reso chiarissimo il massacro di fondi a cui è stata sottoposta la sanità pubblica e la carenza di strutture adeguate. Ad oggi si contano circa 576 casi di Covid-19 nel paese e 12 vittime (dato aggiornato al 9 aprile).

Solo un ospedale – il Rafik Hariri University Hospital di Beirut – è in grado di fare tamponi e accogliere/isolare pazienti malati/e. Attraverso un prestito della Banca Mondiale si dovrebbero equipaggiare altri 8 ospedali pubblici in tutto il paese portando la capacità massima di letti disponibile a 12.000, ma è chiara la carenza di ventilatori al momento disponibili, che si stima possano essere non più di un migliaio.

Anche per questo, gliospedali  privati hanno dato disponibilità a svolgere tamponi e messo a disposizione 20 posti letto ciascuno. Naturalmente però, a pagamento.

Data la gravità della situazione e la consapevolezza delle debolezze del sistema sanitario pubblico, molte persone rispettano l’auto-isolamento e molte città sono deserte.

Tutto questo influirà moltissimo su un’economia già al collasso, e sulla sopravvivenza di molti strati della popolazione che al momento non stanno più lavorando. In Libano non ci sono neanche lontanamente le possibilità che altri paesi – come l’Italia o la Francia – hanno per predisporre misure di sostegno economico e contenimento del contagio.

Nei campi palestinesi, intanto, la paura del contagio preoccupa moltissimo le persone, come ci raccontano gli amici e le amiche di Assomoud. I campi di Shatila e di Bourj al Barajneh sono deserti o quasi, e tutti i negozi rispettano la chiusura imposta dal governo e tentano di auto-organizzarsi per gestire la situazione.

In diversi campi l’UNRWA e le associazioni locali cercano di fare un lavoro di informazione, di igienizzazione di strade e locali, ma la densità della popolazione è oltremodo alta, e le condizioni sanitarie sono talmente precarie che difficilmente queste azioni potranno essere davvero efficaci.

Tutti gli attori internazionali e le Ong impegnate in loco concordano: la diffusione del virus su vasta scala nei campi palestinesi e siriani sarebbe una catastrofe.

Mentre assoluto silenzio proprio su questi luoghi e sulle persone che li abitano è riservato dal governo, anche nella gestione di una crisi di queste proporzioni.

In questo video David ci spiega nel dettaglio la situazione: