La storia di Aeen: dalla Siria al Kurdistan iracheno

12 Febbraio 2021, 17:09

“Magari sei depressa/o e ha bisogno dello psicologo/a, a volte invece hai solo bisogno di un amico o un’amica che ti ascolti – che poi è un po’ quello che facciamo tutti/e prima di andare da uno/a specialista”.

Camille è in Kurdistan iracheno da circa un anno, coordina il nostro progetto di Salute mentale e supporto psicosociale (MHPSS) nei 4 campi profughi per siriani/e intorno ad Erbil. Il campo più piccolo è popolato da circa 2.000 persone, nel più grande ce ne sono quasi 11.000.

Il progetto, nato a fine 2012, è stato rinnovato di anno in anno fino ad oggi.  Medici, psichiatri/e, operatori/trici psicosociali, tutti/e impegnati/e nella salvaguardia della salute mentale delle persone. Se l’idea originaria era quella di supportare il grande numero di siriani/e in fuga dalla guerra – “Erano moltissimi i casi gravissimi di persone malate psichiatriche dovuti a stress post traumatico”, ci racconta Camille – oggi la situazione è un po’ diversa, anche le difficoltà quotidiane sono differenti.

“Quella che è oggi è diventata la ‘normalità’ sono i problemi sociali e emotivi delle persone che ormai vivono in un campo per persone rifugiate da quasi 10 anni” – ci spiega. Famiglie intere hanno dovuto dividersi dai loro cari, non tutti riescono a legare con i nuovi ‘vicini di casa’ ed è “difficile che – in un campo per rifugiati/e – si trovino opportunità lavorative”.

Le risorse sono perennemente scarse e ogni famiglia si ritrova a sopportare una pressione e uno stress inimmaginabile per chi non vive quel contesto.

“Non capita tutti i giorni di ritrovarsi davanti persone aspiranti suicide o di pazienti psichiatrici non diagnosticati – continua la coordinatrice – è per questo che la nostra sfida, negli ultimi due anni, è stata quella di aumentare il bacino di persone raggiunte dai nostri servizi basilari”.

Il supporto di Un Ponte Per si è quindi evoluto da una fase clinica e psichiatrica ad una fase più psicosociale “con la quale diamo un supporto alle persone nel gestire gli stress quotidiani e la frustrazione dettata dalla loro condizione di vita”.

Arrivare a parlare con le persone dei loro problemi, la mancanza di reddito, l’elaborazione di un lutto, non è per niente facile. Ed è per questo che il progetto ha accolto un numero crescente di operatori/trici che provengono dalla stessa comunità che vive nel campo, al fine di costruire un tessuto sociale fiducioso, più aperto al confronto e al dialogo.

Infatti – “É dimostrato che se si riesce a costruire una rete forte di supporto comunitario psicosociale, in cui il team è costituito da persone del luogo, diminuiranno le persone che hanno bisogno di un supporto psicologico o psichiatrico vero e proprio” – racconta con orgoglio Camille.
Sono aumentate col tempo le sessioni mutuali di gruppo, con le stesse persone del campo protagoniste di attività in cui si supportano a vicenda. Il nostro staff le guida, stimolando la creazione di reti e scambi di buone pratiche. Le attività sono molteplici e divise per fasce d’età: adulti, bambini/e, adolescenti. “Per tutti/e incoraggiamo la presenza della famiglia in modo da raggiungere una consapevolezza diffusa su temi del supporto psicologico, al fine di far diventare ‘supportanti’ lo stesso ambiente e le relazioni sociali”- ci spiega. Naturalmente sono mantenute le terapie individuali laddove necessarie.

Il 2020 è stato l’anno della pandemia che ha aggravato ulteriormente la situazione dei campi in Kurdistan, nello specifico però – racconta Camille – “ci siamo resi conti che le connessioni sociali faticosamente costruite si erano danneggiate nonostante fossero un punto ormai fermo nell’affrontare le difficoltà abituali”.
Ciò è accaduto perché, in mancanza di infrastrutture adeguate a fronteggiare una pandemia, le autorità locali erano preoccupatissime dalla catastrofe che anche un solo caso di contagio avrebbe potuto portare nei campi per persone rifugiate. Così le misure preventive sono state durissime, come ad esempio limitare al massimo l’accesso e l’uscita dai campi. Il lockdown ha impattato tantissimo sulla qualità della vita delle persone. Perdendo infatti la libertà di movimento i redditi derivanti da “lavoro a giornata” sono stati totalmente compromessi.

Capiamo come una stessa pandemia, se è vero che colpisce a livello macro differentemente, anche nello stesso campo profughi ha cagionato bisogni e disagi più o meno gravi. “Prendiamo il caso dei\lle minori – continua Camille – se la scuola viene chiusa, non è lo stesso se un/a bambino/a ha a disposizione un pc in casa oppure no, se ha dei genitori che lo/a aiutano, se ci sono i soldi o meno per rispondere alle esigenze quotidiane”.

Spesso cerchiamo infatti di supportare i/le bambini/e, così da tranquillizzare i genitori, migliorando le condizioni di tutta la famiglia.

Nonostante gli anni di supporto alle spalle e la costruzione di legami di fiducia ben radicati, permangono purtroppo ancora degli stigmi sociali piuttosto pesanti sul tema della salute mentale. Come la storia di Aeen.

 

 

Camille se la ricorda bene Aeen, ricorda come sono cambiati i suoi occhi grazie al supporto psicosociale e alle terapie. Come lei sono tante le persone che sono state meglio, che passano al centro ormai soltanto a salutare, fare due chiacchiere, ringraziare.

“Sono contenta che abbiamo avuto l’occasione di raccontare la storia di Aeen – ci dice Camille – perché è una storia comune a moltissime altre persone. É la storia di una donna che ha perso la propria casa, le sue certezze, nonché alcuni familiari. Si è sentita mancare la terra sotto i piedi. Sono momenti nella vita che farebbero male a chiunque, ma allo stesso tempo che chiunque potrebbe trovarsi a vivere”.

Purtroppo non sempre è facile entrare in contatto con le persone e la salute mentale rimane un taboo sociale ancora radicato. Le malattie psichiche sono associate spesso alla pazzia, agli spiriti malvagi, alla possessione. “É complesso combattere tali stigmi. Aeen dice che non le importa che la mi chiamino pazza, è soltanto contenta di poter stare meglio. Questa è la grande sfida per noi qui: far si che le persone accettino di essere seguite e supportate. Proprio come ha fatto Aeen”- conclude.

Gli occhi di Aeen, gli occhi di chi torna a svegliarsi dopo un lungo incubo che sembrava non poter finire. I suoi occhi ci raccontano più di qualsiasi parola come forse stiamo percorrendo la strada giusta, di fianco alle persone in difficoltà, con Aeen, con Camille.