Un altro mondo è necessario

21 Giugno 2021, 11:26

Abbiamo incontrato Giulia Paoli, la principale ideatrice e fondatrice del progetto “Genova Venti Zerouno”, che come Un Ponte Per sosteniamo e ci auguriamo possa avere un grande successo.


Genova Venti Zerouno è un progetto nato con l’obiettivo di creare un ponte tra la generazione che ha vissuto il G8 di Genova nel 2001 e quella dei\lle giovani di oggi. L’idea è quella di produrre un video-documentario e uno spettacolo teatrale basati su una rigorosa indagine storica e sulla raccolta di interviste e testimonianze, indirizzati alle scuole superiori di secondo grado. L’ obiettivo dichiarato, artistico e politico, non è solo informare chi all’epoca non era ancora nato, ma anche portare alla luce le radici comuni che esistono tra la lotta politica di vent’anni fa e quella di oggi.

Chi è Giulia che ha ideato tutto questo?

Sono una ragazza di 30 anni, un’attivista, una militante.
In questa fase embrionale sto coordinando io il gruppo del progetto. Appena possibile lascerò questo ruolo per spostarmi su altro, in quanto le mie competenze professionali sono artistiche, teatrali. Faccio l’attrice con una compagnia pisana che si occupa di teatro sociale, lavorando con le persone marginalizzate, come pazienti psichiatrici, migranti ecc. Lavoro con l’associazione “Geometria delle Nuvole”, ci occupiamo di teatro giovanile, di formazione docenti, andiamo nelle scuole. Nel 2001 avevo 10 anni. Di Genova il ricordo è ancora vivido, passavo le giornate davanti alla tv, anche in famiglia ne parlavamo. Sembra strano, pensando che ero solo una bambina, ma quei fatti mi coinvolsero emotivamente. Neanche due mesi dopo ci fu l’attentato alle Torri Gemelle. Quei due eventi così diversi e così storicamente vicini simboleggiano un po’ quello che successe alla società. Il nostro mondo smise di riflettere su se stesso, sulle proprie storture, e si concentrò sull’altro, su ciò che percepiva come estraneo alla propria civiltà.

Ad oggi, sono passati 20 anni, come credi che vengano percepiti i fatti di Genova?
Di Genova e di quel movimento non se ne parla. Se non esclusivamente con discorsi sulle violenze, sulla morte di Carlo. Anche se ormai la ricorrenza del 20 luglio, al di fuori degli/lle addetti/e ai lavori, la ricordano Zerocalcare e veramente poche altre persone. C’è una vignetta di Michele in cui fa notare che mentre lui e tante/i altre/i erano a Genova c’era una generazione di bambine/i davanti alla tv che magari oggi fa l’amore, ma non sa nulla di quel movimento. Personalmente, pur essendo molto piccola, Genova 2001 è stato un momento che mi ha segnato molto. Quando poi al liceo ho cominciato a fare attivismo, sentivo ancora dentro la rabbia perchè le cose sarebbero dovute andare diversamente.

Pensi che quel momento abbia influenzato l’evoluzione dei movimenti antagonisti?
Dopo Genova c’è stata tantissima frammentazione, scissioni, particolarismi. Questa frammentazione la mia generazione l’ha vissuta tutta. Ce la ritroviamo in moltissime cose: nei diverbi, nelle accuse, nelle grandi discussioni su come si gestisce una piazza durante una manifestazione – che certamente è un tema importante. Ma poi spesso tutto ciò ha portato a discussioni sterili o comunque a perdere il fuoco sul perchè una persona sceglie di scendere in piazza e manifestare. Dall’altro lato, pur sentendomi una “figlia di Genova” devo ammettere che le tematiche stesse si sono diluite, anche se alcune oggi sono tornate in auge. Ma in questi 20 anni la mia generazione ha fatto fatica a trovare un fil rouge.
Sì, ci sono state tante lotte e movimenti, come l’Onda, le lotte contro l’austerity, il Referendum sull’acqua pubblica, le proteste contro i tagli all’istruzione di ogni nuova riforma scolastica. Ogni tematica aveva enorme dignità, ma erano sempre e comunque problemi “settoriali”: si è perso un quadro d’analisi complessivo sulle cose.

Possiamo dire che Genova abbia rappresentato la fine di quel movimento?
Lo credevo anch’io, ma tante persone con le quali ho parlato non individuano la morte del movimento nei fatti di Genova, ma nel fallimento delle manifestazioni contro la guerra in Iraq del 2004. L’indifferenza dei governanti e dei potenti del mondo di fronte alla più grande manifestazione della storia, rimasta inascoltata. Quella credo sia stata la fine.

I movimenti giovanili di oggi, pensiamo a Friday for Future, pensi che abbiano delle radici comuni con il movimento di Genova?

Noi le radici comuni con Genova le troviamo. Poi però c’è da dire che i movimenti nuovi hanno bisogni di sentirsi effettivamente ‘nuovi’ per avere una spinta propulsiva forte. Il nostro compito, in maniera delicata e sottile, è quello di creare una connessione. Senza schiacciare le posizioni odierne, ma solo cercando di lanciare dei segnali. Proviamo a comunicare il dato che, anche 20 anni fa, queste stesse cose già si dicevano.
Si parlava di giustizia climatica, oggi finalmente si trova il coraggio per riparlarne.
La matrice altermondialista è simile, ci sono istanze comuni, i problemi in molti casi sono gli stessi o sono peggiorati. Credo che finalmente sia tornato uno sguardo globale, globalista, internazionalista se vogliamo. Anche nei movimenti di 10 anni fa come Occupy, Indignatos, ecc. c’erano discorsi di questo tipo, ma in Italia hanno avuto poca presa. Oggi mi sembra che si sia tornati a inserire una lotta locale nella lotta globale. Certo, difficilmente si parla di anticapitalismo. Ciò significa che il cordone è stato tagliato e non per forza è un male, perchè forse ha permesso di scardinare una serie di pratiche, dinamiche e sovrastrutture – anche pesanti – che la mia generazione non è riuscita a farsi scivolare da dosso.
Personalmente mi sono allontanata dai movimenti 10 anni fa, perchè c’erano dinamiche di struttura, c’era una gerarchia, non c’era una possibilità di analisi effettiva, di discutere veramente, di essere creativi/e. L’analisi, nella maggior parte dei casi, arrivava già fatta. La generazione trentenne, almeno chi si è speso/a nella militanza, conosce bene questi discorsi. Perciò dico che ci sia stato un momento di rottura necessario. Noi ci siamo sorbite/i quel tipo di problematiche, ma non le abbiamo trasmesse alle nuove generazioni. Anche banalmente come non porsi in un’assemblea. Tutto ciò ha permesso ai/lle ventenni di oggi di tirare fuori nuovi pratiche, nuove forme. C’è una luminosità e una freschezza che sembravano perdute, è tornata la gioia di stare nelle piazze. Certo che magari manca un po’ di visione, propria di quello che era il movimento altermondialista. Ci prova con coraggio anche NUDM, attraverso l’intersezionalismo delle lotte. Purtroppo il rischio di cadere nella lotta specifica è dietro l’angolo. E poi c’è l’enorme problema che per tanti uomini purtroppo il discorso femminista è ancora “respingente”.

Parlando di globalizzazione, nella definizione “no global” ci si riconosceva?
Io credo proprio di no, “no global” è una definizione giornalistica. La globalizzazione non è mai stata il problema, è la direzione verso dove si corre la questione. La rete nazionale “Narrazioni”, composta da ricercatori e ricercatrici, lo spiega chiaramente: il movimento si definiva “altermondialista”. Già da questo fatto si capisce bene come Genova abbia rappresentato un momento in cui la narrazione mediatica l’ha fatta da padrone. Ha “controllato” l’opinione pubblica. Ha fatto “passare” alcune cose, piuttosto che altre.
I media parlavano di “no global” e io per prima li chiamavo così. Finchè non ho avuto modo di parlare con dei/lle “no global”, e mi hanno spiegato che si definivano “altermondialisti”. Non era la globalizzazione in sé a essere criticata, bensì quella tipologia ben precisa: liberalizzazioni e privatizzazioni a tappeto, delocalizzazioni nei Paesi con un basso costo del lavoro, il mercato che governa ogni cosa. Il famoso manifesto diceva “Un altro mondo è possibile”, ma fuori dagli ambienti militanti tutto ciò non è passato. Sarà importante spiegarlo ai/lle ragazzi/e di oggi, perchè i movimenti sono da sempre tacciati di essere sempre contro e mai a favore di nulla. Invece se ci ascoltaste ve lo diremmo cosa vogliamo.

Quale ‘generazione’ sta lavorando alla riuscita di questo progetto?
Tutte le persone coinvolte hanno un’età compresa tra i 26 e i 34 anni: bambini/e al tempo dei fatti di Genova. Ci ha unito l’interesse comune nel voler riparlare di quel movimento, ma in un’ottica nuova. Siamo la generazione di mezzo. Chi oggi ha 20 anni non era ancora nato/a, mentre noi a Genova non c’eravamo perché troppo piccole/i. Credo che il nostro compito sia “fare da tramite”, mettere in relazione le generazioni di attivisti/e, le persone. Il progetto ha dei fini educativi e chi può farlo se non noi? Chi ha 50\60 anni fa fatica a parlare con chi ne ha 18 senza salire in cattedra. Noi invece ci proveremo e vogliamo farcela.

Come pensate di organizzare il tutto, praticamente?
In questo momento abbiamo una raccolta fondi attiva, parallelamente cerchiamo finanziamenti anche tramite enti, associazioni, bandi, fondazioni: siamo partiti dai sostenitori del Genova Social Forum di 20 anni fa, cercando il loro sostegno. Faremo una ricerca storiografica, politica, sociologica che ci aiuti a dare una cornice di senso e di insieme, che sia il più precisa possibile. Se racconti quei fatti a chi non era nato, la ‘cornice’ la devi dare, sennò parliamo del nulla. Genova è esistita in un contesto ben preciso, in tutti sensi. Non credo sia stata ‘la fine’, quanto più l’apice di un percorso che parte da Porto Alegre, passa da Seattle, e dalla creazione del Forum globale. Vogliamo raccontare tutto ciò. Magari all’interno del documentario e dello spettacolo sarà presente solo in forma di piccole cronistorie, ma è fondamentale avere ben presente di cosa parliamo. Specie perché nelle scuole poi ci si parla con le persone, non basta andare lì e portare un prodotto. Venendo al documentario: sarà diretto da Mattia Mura, mentre la sceneggiatura sarà scritta collettivamente. In questa fase stiamo raccogliendo la disponibilità delle persone a essere intervistate. A giugno inizieremo le interviste, mentre a luglio andremo a Genova durante le commemorazioni del ventennale: faremo riprese, torneremo nei luoghi, speriamo di  cominciare a settembre il montaggio del documentario. Vorremmo debuttare con entrambi i lavori entro fine anno.

E per quanto riguarda lo spettacolo teatrale come pensate di procedere?
Lo spettacolo teatrale sarà più incentrato su l’imperativo etico, che muove le scelte personali. Perché tante persone hanno scelto di essere a Genova, di stare in piazza, nonostante sapessero che un ragazzo era morto? Infatti in moltissimi/e sono arrivati/e l’ultimo giorno, quando Carlo era già morto. Perché scelsero di andare, nonostante i rischi, le paure? Sicuramente perché credevano in certe cose ma, forse, c’è anche dell’altro. Questo altro per noi rappresenta un sostrato interessante. Vi racconto un episodio: io lavoro spesso nelle scuole e in una seconda media ho condotto un laboratorio sulla responsabilità personale. Gli ho parlato di Eichmann, di Hannah Arendt e della “banalità del male”. Un uomo che aveva deportato milioni di persone si difese in processo dicendo – “però fisicamente non ho ucciso nessuno”. Ho chiesto alla classe se per loro quell’uomo fosse responsabile di tutti quei morti. Mi hanno risposto di no. Hanno argomentato il loro “no” dicendo che il lavoro è importante, essere licenziati è molto brutto, obbedire agli ordini è doveroso ecc. ecc. Beh quest’episodio mi ha devastata. Per carità è una classe in mezzo ad altre migliaia, ma per me rappresenta un dato, un dato forte: si è perso lo spirito collettivo, si ragiona e si argomenta secondo una logica individuale. Sartre amava ripetere: “C’è sempre una scelta”. Io credo sia vero. Tra consegnare una famiglia di ebrei e farti uccidere, se tu ci credi veramente, puoi scegliere consapevolmente la morte. C’è chi l’ha scelta. Certo che è un discorso estremo, carico del dolore di chi non sapeva spiegare come vicini di casa, amici per una vita, scegliessero di consegnare intere famiglie ai nazisti. Eppure una scelta c’è sempre, esiste. Per quanto dure siano le conseguenze, non si è mai totalmente obbligati. Vogliamo affermare e ribadire questo concetto: una scelta altra è sempre possibile.

Avete timore dei rischi e delle polemiche che inevitabilmente vi attirerete, portando il tema nelle scuole?
Certo che i rischi esistono. Io credo dipendano anche da come ci si presenta. Noi abbiamo intenzione di concentrarci sulle tematiche e sulle istanze, non sulle polemiche stantie.
Vorremmo prevenire utilizzando Genova per fare discorsi più grandi: educativi, storici, di impegno civile, ambientale. Affinché si possa raggiungere un nuovo sguardo sulle cose.
Spostiamo l’attenzione dai fatti di cronaca legati a Genova, a tutto il mondo che c’era dietro.
Sappiamo bene che l’argomento è ancora delicato e divisivo ma siamo anche convinte/i che la discussione classica “se Carlo fosse rimasto a casa non sarebbe morto” è assolutamente sterile, specie dopo 20 anni. Genova 2001 rappresenta ormai un fatto storico, non più un fatto di cronaca, e va affrontato con la giusta distanza. Abbiamo bisogno di uno sguardo che analizzi i fatti in quanto tali, senza “se”, senza “ma”, che poi arrivano sempre dagli ambienti reazionari. Come con i/le partigiani/e: “Se non si fossero dati alla macchia e non avessero attaccato il convoglio nazista, poi non ci sarebbe stata la rappresaglia”. La storia però non è fatta dai se e dai ma. Sono successi dei fatti, e con quelli bisogna confrontarsi. Se mai si alzerà una polemica disinnescheremo dicendo che non siamo venute/i a disquisire su ciò che sarebbe stato giusto o sbagliato, ma per prendere atto di quello che è successo. Come in parte ci siamo staccati/e dal sangue degli anni ‘70, così ci pacificheremo emotivamente con i fatti del 2001. Certo che le ingiustizie rimarranno tali. La vita umana dovrebbe sempre essere il valore primario da salvaguardare.

Come pensate di rapportarvi al tema dell’uso della violenza? Tanto più se è un uso della forza teoricamente “lecito”, in quanto esercitato dallo Stato.
Il mondo occidentale e l’Italia hanno perso la relazione con l’uso della violenza. E meno male, mi viene da considerare. Il fascismo è stato messo da parte. Ciò ha fatto sì che si perdesse l’abitudine alla quotidianità della violenza. Per capirci: l’opzione di imbracciare i fucili e fare la rivoluzione, semplicemente non è un’opzione. Potremo dire che la nostra primavera araba è stata la resistenza, nonostante le tante differenze. Quegli stessi fucili che l’apparato di regime insegnava ad usare per difendere lo status quo poi sono stati usati contro quello stesso regime. Nell’Italia europea, della costituzione più bella del mondo, dei diritti umani, chi avrebbe potuto soltanto immaginare i fatti della Diaz o della caserma di Bolzaneto?
Credo che daremo il giusto spazio alla violenza dello Stato per raccontare quelli che sono i fatti. Ma non sarà il punto centrale del nostro lavoro. Sarebbe anche semplice “emozionare” grazie al racconto di queste eventi. I lavori sul G8 di 10 anni fa raccontavano e approfondivano questi aspetti, ma era una fase ben precisa: c’erano ancora i processi aperti, responsabilità da chiarire ecc. Era una fase: è stata raccontata, e certamente entrerà nei nostri racconti, ma non è il nucleo del movimento Altermondialista che vogliamo trasmettere.
Non vogliamo tramandare la paura della polizia, la paura di scendere in piazza, non vogliamo siano questi sentimenti il frutto del nostro lavoro. La mia generazione è figlia di questi pensieri. Quando una divisa entra in azione abbiamo sempre un po’ il timore che le cose possano degenerare. Non credo sia corretto trasmettere questo ai/lle giovanissimi/e o meglio, non è il nostro obiettivo. Ci sono tante realtà e associazioni che già svolgono – e hanno svolto – questo compito con grandissimo coraggio. Il nostro fine, da un lato, è quello di responsabilizzare le persone. Ogni persona, con ogni scelta che fa, può fare la storia. La storia non è fatta solo dai grandi nomi, è fatta da ognuno/a di noi. Dall’altro lato vogliamo portare la speranza, ma anche la gioia, di continuare ad affermare: un altro mondo è ancora possibile.

Giulia c’è qualcosa che vorresti aggiungere o che vuoi chiarire?
Vittorio Agnoletto ha detto qualche tempo fa: “20 anni fa dicevamo che un altro mondo era possibile, oggi dobbiamo dire che un altro mondo è necessario” – ecco, io credo che possiamo davvero costruirlo insieme. “Genova Venti Zerouno – Il mondo che verrà” è il titolo del nostro progetto. Significa che vogliamo andare verso il domani in maniera diversa. Ed è per questo che c’è bisogno di comunicazione tra le generazioni. L’educazione e la scuola sono fondamentali per un domani diverso, per rapportarsi alla realtà in maniera critica. Perciò: ripartiamo dalle scuole. Nuove generazioni hanno una forza propulsiva, creativa, veramente importante. Possono creare sempre nuovi modi per raggiungere sempre più persone. Sono la nostra speranza. Per concludere spero tanto che Michele (NdR. Zerocalcare) ci dia una mano con il progetto. Ci ho parlato un po’ di tempo fa e gli è piaciuto molto. Sarebbe importante in questo momento una mano da parte sua, visto che è tra gli autori più venduti in Italia. Vogliamo arrivare a tantissime persone.

Di Giulia si avverte l’urgenza, l’esigenza impellente di portare a termine questo progetto, forse l’unico metro oggettivo per distinguere ciò che è arte, da ciò che non lo è. Le auguriamo ogni bene e come Un Ponte Per faremo tutto il possibile per supportare questo progetto eccezionale.

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