Non c’è pace per la Siria

26 Giugno 2019, 12:14

Maria, medico internazionale di UPP, è stata testimone dell’arrivo di oltre 64.000 persone nel campo profughi di Al Hol, in Siria, Tante le donne con i propri bambini e bambine arrivate in condizioni terribili. 

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“A partire dal dicembre del 2018 sono arrivate moltissime persone. Ogni giorno. Erano quasi tutte donne con bambine e bambini al seguito. Le vedevamo arrivare in condizioni terribili, dopo giorni di cammino, scheletriche, malnutrite. Ci hanno raccontato gli orrori dei combattimenti e della fuga. Tante persone sono morte durante il viaggio, hanno sofferto la fame, hanno vissuto in tunnel scavati sottoterra per settimane”.

Maria, Medical Advisor di Un Ponte Per… in Siria, lavora nel campo di Al Hol dall’inverno scorso. E’ qui, in questo luogo dimenticato al confine con l’Iraq, che in meno di 4 mesi sono arrivate 64.000 persone, in fuga dagli ultimi combattimenti contro ciò che resta di Daesh.

Di queste persone, 60.000 sono donne e bambini. “Al Hol è stato creato nel 2016 per accogliere 5.000 persone profughe e sfollate. E’ passato da ospitarne 9.000 a 80.000 in un arco di tempo brevissimo”, racconta Maria. “I nostri operatori e le nostre operatrici lo hanno visto crescere giorno dopo giorno, un pezzo dopo l’altro”.

In gergo tecnico, ogni nuova porzione di campo si chiama “annesso”: è così, un annesso dopo l’altro, che Al Hol è diventato il più grande campo profughi della Siria. Passato alle cronache per le numerose vittime dovute alla fame e al freddo, è oggi un ammasso di tende, di persone in fila per accedere agli unici due Centri sanitari presenti: quelli che siamo riusciti/e ad aprire insieme alla Mezzaluna Rossa Curda, con cui lavoriamo ormai dal 2015. Ma un’espansione così rapida e incontrollata, ha reso la vita stessa del campo un’emergenza in sé: “mancano i servizi più essenziali, e ci troviamo ad operare in condizioni davvero difficili”, spiega Maria.

Tra le cose per cui è tristemente noto Al Hol, anche il fatto che tra i suoi “annessi” ospiti le vedove di Daesh: 9.000 persone di 60 nazionalità diverse, mogli dei “foreign fighters”, di cui nessun governo vuole farsi carico. Persone abbandonate a loro stesse, per le quali anche accedere ai servizi sanitari di base è difficile, a causa della rabbia e del rancore delle altre persone ospitate nel campo.

Ed è qui, tra tende e difficoltà, che si tocca con mano la distruzione causata dalla guerra. Quella che resta, anche quando le armi tacciono, lasciando tracce quasi invisibili di ciò che c’era prima, e che adesso va ricostruito da capo. “Prima della guerra i medici siriani erano famosi per essere i più preparati al mondo, ed ancora è così”, racconta Maria, che ricorda al suo arrivo di aver trovato professioniste e professionisti appassionati e coraggiosi, che nonostante tutto avevano scelto di restare nel proprio paese. “Ma 8 anni di guerra hanno provocato anche il fatto di non poter accedere agli aggiornamenti professionali: quando proponiamo corsi di formazione sono entusiasti, e pieni di idee eccellenti”.

Tra queste, anche quella di creare unità di Operatrici e Operatori Sanitari di Comunità (Community Health Workers), per dare vita ad un sistema di Medicina di Comunità che possa rispondere ai tanti bisogni di una popolazione vessata da anni di conflitti, con un’infrastruttura sanitaria andata in pezzi. Sono persone comuni, che prima della guerra era impiegate spesso in altri settori, e che oggi, dopo approfondite formazioni, sono in grado di garantire prima assistenza spostandosi tra quelle stesse comunità di cui fanno parte. E che, riconoscendoli, si fidano di loro.

Dalle prime diagnosi alle tecniche di prevenzione e promozione della salute, le Operatrici e gli Operato di Comunità si impegnano per garantire quelle attenzioni umane altrimenti difficili da incontrare in luoghi come questi. “Molto spesso sono donne, determinate a dare il proprio contributo alla ricostruzione del paese”, racconta Maria. “In Siria chi ti apre la porta di casa è sempre una donna: trovarne di fronte un’altra renderà lo scambio molto più semplice. Le Operatrici Sanitarie di Comunità danno consigli sulla gestione delle gravidanze, l’allattamento, la nutrizione dei bambini: spesso sono madri a loro volta, e le donne che incontrano sono più portate a dare loro fiducia e ascolto”.

Il lavoro delle Operatrici parte da un assunto banale, ma non scontato: in Siria sono ancora le donne ad occuparsi della gestione domestica, di mettere in tavola un pasto, anche se la tavola a stento c’è, anche se il pasto è un sacco di riso degli aiuti umanitari. “Se sanno prendersi cura di loro stesse, lo faranno anche delle loro famiglie. Cresceranno figlie e figli sani, e potremo così puntare più sulla prevenzione che sulla cura, rendendo stabili e sostenibili nel tempo i progressi che facciamo insieme”, spiega Maria.

Perché in Siria siamo presenti ormai dal 2015, e il sistema lo abbiamo visto cambiare. Abbiamo visto medici, operatrici e operatori muoversi in contesti che sembravano impossibili. Li abbiamo visti usare automobili come ambulanze, quando ancora le ambulanze non c’erano.

E li abbiamo visti ricostruire, un pezzo dopo l’altro, quel che restava del loro sistema sanitario. Poi, abbiamo iniziato a farlo insieme: perché l’emergenza umanitaria un giorno finirà, ma non il bisogno di ricostruire un paese devastato dalla guerra partendo dal diritto alla salute, garantito a tutte e tutti.

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L’intervento nel campo di Al Hol è implementato nell’ambito del progetto “Fourniture de soins de santé primaires et de services d’urgence aux réfugiés iraquiens et aux personnes déplacées à l’intérieur du camp d’Al Hol (2019-009)”.