Covid-19 in Siria: il paese a un passo da una potenziale catastrofe

17 Settembre 2020, 13:00

Aumentano i casi positivi al Covid-19 nel nord est della Siria, dove non c’è certezza sul numero di persone contagiate e dove le strutture sanitarie sono troppo vulnerabili per fronteggiare un picco pandemico ancora atteso.
Ad oggi, i casi positivi di Covid-19 nel nord est della Siria confermati sarebbero 3.576, su una popolazione di 3 milioni di persone. Ma i dati sarebbero fortemente sottostimati: pochi infatti sono i test effettuati, e poco affidabili. Centinaia sarebbero i decessi correlati al Covid-19 non confermati.

Sono i numeri a dare un quadro esaustivo della situazione: se in Italia al 12 settembre la percentuale dei casi positivi riscontrati sul totale di tamponi effettuati era dell’1,6%, nel nord est della Siria ha toccato quota 34%.

Al netto dei pochi tamponi effettuati, questo significa che potrebbero essere moltissime le persone contagiate non identificate, che stanno involontariamente contribuendo alla diffusione del virus.

Il numero di casi positivi continua a salire e le misure di protezione non sono sufficienti a contenere il picco pandemico atteso. Nel frattempo anche medici, operatori e operatrici sanitarie stanno iniziando ad ammalarsi, rendendo più alto il rischio di contagio, e più difficile il funzionamento di cliniche e ospedali.

Se la situazione è critica nelle principali città dell’area – Hassakeh, Derik, Membij, Tabqa, dove si registra la più alta concentrazione di popolazione e di casi in aumento – nei campi profughi, che oggi accolgono centinaia di migliaia di persone, il rischio di un’emergenza incontenibile è ogni giorno più alto.

Qui l’accesso all’acqua corrente non è garantito, e assicurare misure di distanziamento sociale è quasi impossibile. Nei campi di Al Hol e Areesha, dove siamo presenti da anni con le nostre cliniche, sono stati imposti alcuni giorni di lockdown, particolarmente difficili da sostenere però quando le case sono tende.

Un’emergenza che viene fronteggiata con determinazione e coraggio dal personale sanitario e dall’Amministrazione autonoma dell’area, ma con un sistema sanitario estremamente vulnerabile: 9 anni di conflitto hanno ridotto in macerie la gran parte del paese, e l’ultima offensiva turca dell’ottobre 2019 ha ulteriormente indebolito la rete di cliniche e ospedali che stavamo gradualmente ricostruendo.

Cliniche che, ad oggi, non possono funzionare a pieno regime perché sottoposte a continue quarantene e sanificazioni, in cui si assiste ad un preoccupante calo di accessi per la paura delle persone di contrarre il Covid-19.

Cose che abbiamo visto accadere nel nostro paese come nel resto dell’Europa e del mondo, con l’aggravante, però, di essere in un territorio instabile e in stato di guerra, che non può fronteggiare da solo una pandemia.

Basti pensare che ad aprile, quando siamo riusciti/e a rendere operativo il primo reparto Covid-19 di terapia semi-intensiva nell’ospedale di Hassakeh insieme alla Mezzaluna Rossa Curda, nostro storico partner nell’area, in tutto il nord est della Siria non era disponibile uno solo respiratore, un solo letto in rianimazione.

Per questo Un Ponte Per sta per allestire altri 3 reparti Covid-19 negli ospedali di Derek, Membij e Tabqa, le principali città del nord est della Siria, dove non sono presenti altre organizzazioni umanitarie e dove i medici si attendono la più alta percentuale di aumento dei casi nei prossimi mesi.

I reparti saranno operativi a fine settembre, con un totale di 40 posti letto di terapia intensiva e 20 di sub-intensiva, per il trattamento di casi moderati e gravi di infezione da Covid-19. A questo Un Ponte Per affiancherà le formazioni del personale sanitario – medici, infermieri/e e anestestisti/e – che dovrà fronteggiare una situazione molto simile a quella vissuta nel nostro paese, ma con strumenti e mezzi drammaticamente inferiori.

Per questo abbiamo scelto le formazioni a distanza con i/le medici italiani/e che si sono resi/e disponibili per fornire a colleghi e colleghe siriane consulenze e consigli. Una pratica che abbiamo già sperimentato con successo quando abbiamo ricostruito parte dell’ospedale di Raqqa. In quell’occasione abbiamo formato da remoto il personale sanitario della Mezzaluna Rossa Curda grazie alla collaborazione con il Policlinico Gemelli di Roma.

E poi, oggi più che mai, lavoriamo sulla prevenzione. Perché laddove i sistemi sanitari sono vulnerabili, e i medicinali non sempre disponibili, questa è l’unica cura possibile. Stiamo portando avanti da mesi intense campagne di sensibilizzazione nei campi profughi in cui operiamo così come in tutte le cliniche che gestiamo insieme alla Mezzaluna Rossa Curda.

La pandemia di Covid-19 ha riguardato e riguarda tutte e tutti noi. Ma non per tutte e tutti è stata la stessa cosa. Affrontare un’emergenza di questa portata è stato già durissimo con sistemi sanitari solidi, medici adeguatamente formati/e, medicinali e attrezzature disponibili, reparti di terapia intensiva ed ospedali funzionanti. Possiamo solo immaginare cosa significhi farlo in luoghi già feriti dalla guerra, nella desolazione dei campi profughi, in ospedali non attrezzati.

Ma possiamo fare in modo che tutto questo sia meno difficile, insieme. Andrà tutto bene solo se andrà bene per tutte e tutti.

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